mercoledì 7 novembre 2018

COMMENTO DEL CANTO XI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< O Padre nostro, che ne' cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là su tu hai,
laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore
da ogne creatura, com'è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver' noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s'affanna.
E come noi lo mal ch'avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di leggier s'adona,
non spermentar con l'antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest'ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro. >>
Il canto XI si apre con il Padre Nostro recitato dai superbi nella prima cornice. La versione che qui leggiamo non è quella classica che i cattolici recitano in Chiesa ogni domenica, è una versione adattata al ritmo del poema ed estesa in modo da approfondire alcuni concetti espressi nella preghiera stessa. I superbi si rivolgono al Padre che è nei cieli, non perché sia in esso spazialmente limitato ("non circunscritto"), bensì per il maggior amore dei primi effetti della sua creazione (gli angeli). Lodano poi il suo nome, il suo valore e rendono grazie al suo vapore, tre figure che secondo alcuni critici rappresentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, mentre per altri il vapore semplicemente rappresenta la bontà divina. Le anime auspicano poi la venuta della grazia divina, a cui gli esseri umani non possono arrivare solo con le proprie forze. Chiedono a Dio di dare loro il pane quotidiano, quello che sazia l'anima e rende immortali, senza il quale le anime del Purgatorio finirebbero per tornare indietro e allontanarsi dall'eterna beatitudine. Chiedono poi che il Signore perdoni a ognuno i propri peccati così come loro perdonano ogni torto subito, poi pregano che i loro meriti terreni non siano tenuti in considerazione, infatti non è per mezzo di questi che troveranno l'eterna beatitudine. La preghiera si conclude con la richiesta che Dio non lasci gli uomini in preda alle tentazioni, a cui non saprebbero resistere, e specificano che questo non è necessario per loro, ma per quelli che sono ancora in vita. Questa preghiera è recitata dalle anime dei superbi i quali, schiacciati da un peso simile a quello che a volte ci opprime negli incubi, camminano purificandosi dei loro peccati. 
Dante a questo punto si chiede cosa possa fare chi è ancora in vita per quelle anime che, in fase di purificazione, con la loro preghiera chiedono grazia e aiuto per i vivi. Conclude infine che è necessario un impegno costante da parte dei vivi affinché, attraverso le preghiere di suffragio, si acceleri l'accesso al Paradiso di queste anime ("Ben si de' loro atar lavar le note / che portar quinci, sì che, mondi e lievi, / possano uscire a le stellate rote"). Entra in scena a questo punto Virgilio il quale, dopo aver augurato alle anime di potersi presto liberare del peso che le opprime e poter salire al cielo, chiede loro quale sia la strada più breve e meno ripida per salire alla seconda cornice, infatti Dante ha ancora il corpo mortale e il suo peso è un ostacolo in caso di salite troppo proibitive. La risposta che giunge a Virgilio non si capisce da quale delle anime sia pronunciata. Gli viene detto di venire con loro verso destra, dove c'è una salita affrontabile da un corpo mortale. Colui che ha parlato dice che se non avesse il viso rivolto verso il basso a causa del peso che porta addosso, guarderebbe il mortale per capire se lo conosce o meno. Si presenta come figlio "d'un gran Tosco", cioè di Guglielmo Aldobrandesco, e dichiara che fu così superbo in vita a causa delle grandi opere dei suoi avi da sentirsi superiore ad ogni uomo, causando la propria tragica fine che conoscono bene sia in senesi che anche tutti i ragazzi di Campagnatico. In vita fu Omberto e la superbia non solo a lui ha fatto un danno, bensì tutti i suoi parenti hanno condiviso lo stesso destino. Nella cornice dei superbi è giusto che porti questo peso, dichiara, pagando a Dio il debito che non pagò in vita, quindi cancellando la sua superbia così come non fu in grado di fare in vita. Il discorso di Omberto è molto interessante, egli infatti accetta con umiltà la propria pena e ammette di meritarla, però nella sua presentazione persiste ancora un pizzico di orgoglio quando definisce il padre "un gran Tosco": l'umiltà c'è, ma la superbia non è ancora completamente cancellata, forse per questo è ancora nella cornice col peso sulla testa. Per quanto riguarda la figura storica, Omberto Aldobrandeschi fu conte di Soana, alleato di Firenze e grande nemico dei senesi, da cui fu ucciso. Sulle circostanze della sua morte ci sono due versioni: secondo la prima, fu soffocato nel proprio letto da sicari mandati dai senesi; per la seconda, morì in una battaglia contro Siena.
Dante china il viso e vede un'anima torcersi sotto il peso che la schiaccia e chiamarlo per nome. Il poeta cammina chino dietro le anime e riconosce quella che l'ha chiamato, quindi gli chiede se non sia Oderisi da Gubbio, maestro dell'arte che a Parigi è chiamata d'enluminer, cioè l'arte delle miniature. Oderisi ammette che le miniature di Franco Bolognese, un suo allievo di cui non si hanno notizie biografiche certe, sono superiori alle sue, dice poi che mai avrebbe ammesso una cosa del genere in vita e questa superbia ora sta pagando nel Purgatorio. Sarebbe addirittura all'Inferno se, ancora vivo, non avesse fatto ammenda dei propri peccati. Il miniaturista si lascia andare infine a un discorso contro la vanagloria, citando l'esempio di Cimabue, il quale si credette il miglior pittore e invece adesso è oscurato da Giotto, e quello di Guido Guinizzelli, a cui Guido Cavalcanti ha tolto la fama di miglior poeta, e forse addirittura è nato chi sostituirà il Cavalcanti ("Così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà dal nido"). Colui che forse supererà Guido Cavalcanti è ovviamente Dante Alighieri, il quale si concesse scrivendo La Commedia questo piccolo peccato di superbia, il quale però aveva delle basi solide perché il poema che stava scrivendo avrebbe poi superato in fama ogni opera letteraria. Oderisi spiega che le chiacchiere mondane sono un fiato, un vento che può cambiare direzione in qualsiasi momento, poi a Dante chiede, se anche dovesse morire vecchio o se fosse morto bambino, che ricordo di lui ci sarebbe tra mille anni. La memoria degli uomini dopo un po' si cancella, inoltre anche mille anni sono un battito di ciglia se paragonati al periodo di rivoluzione del cerchio celeste più lontano dalla Terra (gli astronomi dell'epoca calcolarono questo periodo in 36.000 anni). Il miniaturista infine fa l'esempio dell'anima che, schiacciata dal peso, cammina poco avanti a lui: un tempo il suo nome risuonò in tutta la Toscana, adesso invece nella Siena che governò in pochi lo ricordano. La fama è come l'erba, il cui colore col passare del tempo si rovina e sbiadisce.
Dante, incuriosito dal discorso di Oderisi, gli chiede chi sia l'anima di cui ha appena parlato. Il miniaturista gli risponde che è Provenzano Salvani, la cui superbia lo portò a voler tenere Siena tutta sotto il suo controllo, per questo ora sconta la pena nella cornice. Provenzano Salvani fu un ghibellino senese e podestà di Montepulciano, il quale perì nella battaglia di Colle (1269) in cui i ghibellini senesi furono sconfitti. Il poeta a questo punto ha un dubbio, infatti, stando alle parole di Oderisi, non ci fu pentimento in vita di Salvani, quindi dovrebbe essere fermo nell'Antipurgatorio. Dante chiede come si possa invece trovare già lì e Oderisi gli spiega che in vita si umiliò pubblicamente nella pubblica piazza di Siena e chiese l'elemosina per poter liberare un suo amico prigioniero di Carlo I d'Angiò, in virtù di questa opera pia e di massima umiliazione ha avuto l'accesso diretto al Purgatorio. Nel discorso finale del miniaturista c'è anche un accenno all'esilio prossimo di Dante, infatti gli dice che passerà poco tempo prima che i suoi concittadini gli facciano vivere da vicino una situazione simile. L'allusione è all'offerta che nel 1315 i fiorentini fecero a Dante, cioè l'avrebbero rimpatriato se si fosse offerto pubblicamente in piazza san Giovanni e avesse pagato un compenso in denaro, condizioni che il poeta rifiutò. 

Francesco Abate 
    

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