La selva oscura nella Divina Commedia è la prima immagine polisemica, cioè la prima che ha più significati.
Di questa selva il poeta non ci dà una descrizione precisa, si limita a definirla selvaggia, aspra e forte, tanto che solo il ricordo basta a rinnovare lo spavento che incute, poco meno amara della morte. A differenza della selva dei suicidi, in cui Dante fa una descrizione minuziosa dell'ambientazione ("Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; / non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco."), della selva oscura non ci dice niente di concreto, perché non ha l'esigenza di creare lo sfondo a eventi o dialoghi, vuole semplicemente lanciare un messaggio.
La selva è ai piedi di un colle alle cui spalle c'è il sole, quindi fuori dalla sua oscurità c'è la gioia, ma l'uscita è impedita dalle tre fiere, il cui significato descriverò in un altro post. Essa rappresenta quindi lo smarrimento dell'anima vissuto da Dante intorno ai trentacinque anni; uno smarrimento che non sa ben dire quando è iniziato, essendoci caduto che era "pieno di sonno", cioè perso e annebbiato. La critica tende a collocare l'inizio dello smarrimento del sommo poeta, quindi l'inizio del suo stato di torpore morale, nell'anno della morte di Beatrice, la donna che lo salverà poi attraverso il viaggio nei tre regni dell'oltretomba.
Lo smarrimento rappresentato dalla selva non è però solo quello di Dante, perché non dobbiamo dimenticare che la Divina Commedia è un poema universale, cioè abbraccia tutta l'umanità. Il viaggio dantesco comincia nel 1300, anno che è il culmine della vita del poeta (era nel mezzo, quindi iniziava la fase discendente), ma lo è anche per la storia della Chiesa, essendo l'anno del primo giubileo (pochi anni dopo ci sarà lo Schiaffo di Anagni), e per la storia di Firenze, che con la contesa di Calendimaggio vede acuirsi le divisioni che sfoceranno nello scontro tra Bianchi e Neri. Nella selva oscura non è perso solo Dante, lo sono anche la Chiesa e Firenze, che hanno smarrito la retta via per incamminarsi verso un futuro di corruzione e sofferenze.
Nel canto XX dell'Inferno Virgilio accenna al plenilunio, che porta giovamento a Dante mentre è smarrito nella selva oscura ("e già ier notte fu luna tonda: / ben ten de' ricordar, ché non ti nocque / alcuna volta per la selva fonda"), accennando alle false consolazioni a cui l'anima smarrita si aggrappa (lettura giustificata dal fatto che il richiamo alla luna è fatto nella bolgia dei maghi e degli indovini).
Francesco Abate
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