domenica 4 febbraio 2018

COMMENTO AL CANTO XV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
Il quindicesimo canto dell'Inferno vede i poeti ancora nel terzo girone del secondo cerchio. Essi stanno percorrendo uno degli argini di pietra del fiume di sangue, col vapore che li protegge dal fuoco che piove dall'alto. L'autore, per renderci l'immagine degli argini che contengono il fiume infernale, li paragona alle dighe dei Paesi Bassi (tra Wissant, villaggio della Fiandra occidentale, e Brugges) e agli argini che i padovani alzavano lungo il Brenta per difendersi dalle piene primaverili ("Quali fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, / temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa, / fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia; / e quali Padoan lungo la Brenta, / per difender lor ville e lor castelli, / anzi che Carentana il caldo senta: / a tale immagine eran fatti quelli, / tutto che né sì alti né sì grossi, / qual che si fosse, lo maestro felli"). Con il verso "qual che si fosse, lo maestro felli", Dante ci dice di non sapere se gli argini siano opera di Dio o di Lucifero. 
I poeti hanno percorso già un po' di strada, tanto che le tenebre non permetterebbero a Dante di determinare la distanza percorsa anche guardandosi indietro ("Già eravam de la selva rimossi / tanto, ch'i' non avrei visto dov'era, / perch'io in dietro rivolto mi fossi"), quando si imbattono in un gruppo di anime che corrono senza sosta e li guardano come qualcosa di nuovo e sorprendente. Una delle anime riconosce Dante, lo prende per la veste è si lascia andare ad un'esclamazione di meraviglia. Il poeta osserva quel volto sfigurato dal fuoco, caratteristica sottolineata con le espressioni "lo cotto aspetto" e "'l viso abbrusciato", e riconosce con meraviglia Brunetto Latini, suo maestro di filosofia naturale. Nella domanda di Dante c'è una nota di dolorosa sorpresa ("Siete voi qui, ser Brunetto?"), trova infatti il suo maestro nella schiera dei sodomiti e ciò non può che sorprenderlo negativamente. C'è da dire che nei suoi scritti Brunetto Latini condannò fermamente la sodomia, ma evidentemente il suo allievo doveva aver avuto notizie che lo collocavano proprio tra coloro che tanto aveva censurato. Brunetto chiede a Dante di poter stare un po' con lui, questi accetta, invitandolo a sedersi con lui sull'argine del fiume qualora Virgilio sia d'accordo. Brunetto però gli spiega che qualunque anima lasci la schiera con cui corre, è condannata poi a bruciare cent'anni senza sosta sulla sabbia rovente, lo invita quindi a procedere così che gli possa stare vicino, rallentando un po' la sua marcia, per poi riunirsi al suo gruppo. Le parole di Brunetto Latini, così dolci nei confronti del suo allievo e così piene del desiderio di discorrere con lui, si concludono con un amaro richiamo all'eterna pena senza speranza a cui è destinato: "e poi rigiugnerò la mia masnada, / che va piangendo i suoi etterni danni". Dante china il capo in segno di rispetto, ma non può scendere dall'argine perché resterebbe bruciato dalla sabbia rovente. Brunetto Latini chiede a questo punto quale volontà superiore o caso ("Qual fortuna o destino") abbia portato il suo discepolo in quel girone dell'Inferno e chi sia colui che lo accompagna. Dante racconta di essersi smarrito nella selva oscura appena ieri mattina, di aver incontrato poi Virgilio che lo ha condotto lì dov'è adesso. Nel parlare dell'incontro con la guida, Dante dice che gli è apparsa, non che lo ha incontrato, questo per sottolineare la natura sovrannaturale dell'incontro. Brunetto, sentito il racconto, da esperto di astrologia quale fu gli dice che seguendo la sua stella (la costellazione dei Gemelli, sotto cui Dante nacque) non fallirà la sua ascesa verso la gloria. Gli dice anche, da buon maestro, che l'avrebbe aiutato e consigliato se non fosse morto troppo presto. Brunetto Latini aveva più di settant'anni quando si trovò ad istruire un giovane Dante, appena ventiquattrenne, non ebbe perciò il tempo di vederlo maturare sul piano letterario e su quello politico. Il vecchio maestro di Dante non si limita però a confortarlo, gli predice anche una futura sventura:
"Ma quello ingrato popolo maligno
che discese da Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra i lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico."
Annuncia a Dante che la sua rettitudine lo porterà a farsi nemico il popolo di Firenze. Il maestro con ironia dice che così è giusto, perché tra gli aspri sorbi non può dar frutto il dolce fico. Il maestro consiglia poi al discepolo di non lasciarsi corrompere dai costumi dei suoi concittadini ("dai lor costumi fa che tu ti forbi"), gli preannuncia poi come sia i guelfi bianchi che quelli neri lo vorranno distruggere ("La fortuna tua tanto onor ti serba, / che l'una parte e l'altra avranno fame / di te ..."), chiude poi il discorso in un'invettiva con cui auspica che i fiesolani facciano strage di sé stessi ma non di chi porta con sé i valori del popolo dell'antica Roma ("la sementa santa"). In tutto questo discorso quindi, Brunetto Latini predice a Dante i problemi politici che lo porteranno all'esilio. La risposta di Dante è prima di tutto una rievocazione di dolci ricordi, richiama infatti alla memoria il passato in cui Brunetto gli insegnava "come l'uom s'etterna" ed esprime al maestro tutta la sua gratitudine. Il poeta dichiara poi che ricorderà l'oscura profezia del maestro e discuterà sia di questa che di quella fatta da Farinata con Beatrice. Chiude il suo discorso accettando il destino prospettatogli da Brunetto, e prima da Farinata, dicendo di essere pronto ad accettare il corso del suo destino ("ch'a la fortuna, come vuol, son presto. / Non è nuova a li orecchi miei tal arra: / però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e 'l villan la sua marra"). Nell'ultimo verso c'è la piena accettazione dell'amaro destino e della malvagità dei suoi concittadini, il termine villan infatti può indicare l'agricoltore, che si accosta alla marra che è uno strumento agricolo, ma allo stesso tempo può indicare anche l'uomo di scarso valore. Finito questo discorso, Dante chiede a Brunetto chi siano i dannati che sono con lui. Il maestro gli dice che alcuni è bene citarli, altri è meglio lasciarli perdere: sono talmente tanti che il tempo non basterebbe a nominarli tutti. Gli spiega che sono tutti chierici e grandi letterati, tutti colpevoli del peccato di sodomia. A questo punto ne cita alcuni: Prisciano, sulla cui identità non c'è certezza, alcuni lo identificano con un vescovo eretico ed altri con un grammatico; Francesco d'Accorso, insegnante, figlio di un giureconsulto fiorentino; Andrea de' Mozzi, vescovo di Firenze dal 1287 al 1295, trasferito alla sede di Vicenza. Brunetto dichiara infine che parlerebbe ancora, ma vede avvicinarsi un'altra schiera di dannati a cui non deve mischiarsi. Raccomanda al suo allievo il suo Tesoro, la sua opera letteraria, in cui ancora vive, e fugge via. Brunetto scappa così velocemente da ricordare a Dante uno dei corridori che la prima domenica di Quaresima gareggiavano a Verona per vincere un drappo verde, e corre tanto veloce da essere paragonabile al vincitore ("e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde"). Nell'ultima immagine è quindi evidenziato di nuovo il castigo eterno, viene nuovamente mostrata l'anima punita e sparisce invece l'immagine del maestro che ha discusso amabilmente con l'allievo. In questa conclusione, nella constatazione della pena inflitta al suo amato maestro, si può percepire la pena provata dal poeta.

Francesco Abate 

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