mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era già fioco.
Il canto XIV si apre con Dante che, per compassione nei confronti del suo concittadino suicida, raccoglie le fronde spezzate e gliele pone vicino. La voce proveniente dal cespuglio è ormai già fioca.
Compiuta l'opera di carità, il poeta e la sua guida arrivano laddove il secondo girone si divide dal terzo. Si trovano in una zona totalmente priva di vegetazione ("una landa / che dal suo letto ogne pianta rimove"). La selva dei suicidi circonda questo girone così come il Flegetonte circondava la selva stessa ("La dolorosa selva l'è ghirlanda / intorno, come 'l fosso tristo ad essa"). I poeti si fermano rasente la sabbia perché è infuocata. Così Dante ci descrive la sabbia del terzo girone, quello in cui sono puniti i violenti contro Dio: "Lo spazzo era una rena arida e spessa, / non d'altra foggia fatta che colei / che fu' da' piè di Caton già soppressa". Dante ci fa un paragone tra la sabbia arida del terzo girone e quella del deserto libico, la quale fu calpestata da Catone al comando dell'esercito di Pompeo. La descrizione del girone continua poi con un'invocazione: "O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta da ciascun che legge / ciò che fu manifesto a li occhi miei!". Rivolgendosi alla vendetta divina, Dante in realtà si rivolge a noi e ci ammonisce dicendoci che quel che lui vede, e che trascrive, deve portarci a temere la vendetta di Dio. Il poeta vede un gran numero di anime nude, tutte piangono, ma ognuno ha una posizione diversa. Dobbiamo ricordare che i violenti contro Dio non sono solo i bestemmiatori, ma anche gli usurai e i sodomiti, cioè coloro che vissero contro natura. I dannati sono quindi divisi in tre gruppi: i bestemmiatori giacciono distesi supini sulla sabbia rovente, gli usurai stanno seduti e raccolti in sé stessi, i sodomiti invece corrono senza sosta ("Supin giacea in terra alcuna gente, / alcuna si sedea tutta raccolta, / e altra andava continuamente"). I sodomiti sono in numero maggiore, meno sono i bestemmiatori che però imprecano per il dolore. Dal cielo cade sui dannati una pioggia di fuoco, idea che può essere stata suggerita a Dante dall'episodio biblico della distruzione di Sodoma e Gomorra. La pioggia che cade non è però violenta è fitta, è lenta, così da permettere alle fiamme di essere più larghe. Per rendere l'idea della lentezza della pioggia di fuoco, Dante fa il paragone con la neve che cade sulle Alpi in assenza di vento. Con questo paragone il poeta, richiamando alla mente il freddo, accentua anche il contrasto con la pena che patiscono i dannati in questo girone. La pioggia infuocata finisce per far ardere anche la sabbia, così che il dolore si raddoppi. Per descrivere come il fuoco faccia ardere la sabbia, Dante rievoca un episodio leggendario riguardante Alessandro Magno. In un'epistola attribuita al grande sovrano macedone e indirizzata ad Aristotele, Alessandro racconta di esser stato sorpreso da una nevicata molto forte, tanto da essere costretto ad ordinare ai suoi uomini di calpestare la neve; successivamente è arrivata una pioggia di fuoco e il re ha ordinato ai suoi soldati di difendersi con le vesti. Questa leggenda nel Medioevo fu stravolta, fondendo i due eventi in uno unico che vedeva i macedoni impegnati a calpestare il fuoco che pioveva dal cielo affinché tante piccole fiamme non si unissero a formare un grosso incendio. Quello che i macedoni evitarono nella leggenda, non possono evitarlo i dannati di questi gironi, che vengono colpiti dalla pioggia di fuoco e contemporaneamente sono arsi dalla sabbia rovente. Il poeta ci narra di come i dannati agitino senza sosta le mani nel vano tentativo di togliersi di dosso le fiamme che li colpiscono.
Guardando i dannati, Dante nota che ce n'è uno che sembra non curarsi del fuoco che lo tormenta e subito chiede spiegazioni a Virgilio ("I' cominciai: << Maestro, tu che vinci / tutte le cose, fuor che ' demon duri / ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, / che è quel grande che non par che curi / lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, / sì che la pioggia non par che 'l marturi? >>"). Da notare che il poeta inizia la sua richiesta magnificando Virgilio, salvo poi evitare di eccedere ricordando l'episodio della porta di Dite, dove la sua guida non ha potuto nulla senza l'intervento divino. Il concetto che viene così ribadito è che anche il grande deve essere umile innanzi a Dio, per l'autore è fondamentale esprimere questa idea laddove sono puniti coloro che non ebbero in vita tale umiltà. Nella sua richiesta va sottolineato come il poeta ribadisca che il dannato "non par" curarsi della pena e "non par" soffrire, indicandoci quindi come sia evidente che egli stia simulando, che si sforzi di tenere un'aria orgogliosa e differente, ma stia in realtà patendo il dolore. Il dannato in questione è Capaneo, personaggio della Tebaide del poeta latino Stazio. Nell'opera Capaneo è uno dei sette re che assedia la città di Tebe per ridare il regno a Polinice e proprio sulle mura della città è abbattuto da un fulmine di Giove, a cui ha lanciato una sfida. Proprio Capaneo risponde a Dante, evitando che sia Virgilio a rispondere, ma piuttosto che rivelare la propria identità si preoccupa di fare un discorso in cui cerca di apparire indifferente alla propria pena, mostrandosi ancora una volta irrispettoso nei confronti di Giove. Esordisce dicendo che, così come fu audace in vita, lo è ora da morto. Mostra poi tutta la sua arroganza dicendo che, anche se Giove usasse tutte le folgori di Vulcano, chiedendo a lui disperatamente aiuto, se anche usasse tutta la sua forza, non riuscirebbe a vederlo umiliato. L'arroganza di Capaneo è senza limiti, nonostante sia stato già sconfitto, dichiara di non temere la furia di Giove e per farlo descrive un episodio immaginario in cui il dio agisce preoccupato e intimorito dal nemico. Sentite le parole di Capaneo, Virgilio interviene con un ardore che mai prima d'ora aveva manifestato, dicendogli che il persistere della sua superbia e della sua rabbia sono la punizione più dura che gli spetta per la sua empietà. Virgilio si rivolge poi a Dante, gli spiega chi sia il dannato, infine gli raccomanda di venirgli dietro senza però mai mettere i piedi sulla sabbia ardente, devono camminare sempre lungo il bosco.
Camminando in silenzio, arrivano in una parte della selva dove dal suolo esce un piccolo fiumicello di colore così rosso da essere raccapricciante. Si tratta di una piccola diramazione del Flegetonte, il fiume di sangue. Per permetterci di avere un'immagine del fiumicello, Dante fa il paragone con il Bulicame, una vena di acqua sulfurea a 65°C che sgorga da una fessura posta sulla sommità di una collina a pochi chilometri da Viterbo. Da questa vena le ortolane ("le pettatrici") tracciavano dei solchi, così da far arrivare l'acqua dove volevano e poterci macerare canapa o lino. Così come si dividevano i solchi dal Bulicame, così quel piccolo ramo del Flegetonte scende e si divide. Il fondo e le pendici del ruscello sono in pietra e Dante si accorge che ci si può camminare senza bruciarsi i piedi. Virgilio a questo punto interrompe il silenzio, dice che tra le tante cose che ha mostrato a Dante, niente è così stupefacente come quel corso d'acqua che col suo vapore spegne le fiamme che piovono dall'alto. Dante, incuriosito, chiede "che mi largisse 'l pasto / di cui largito m'avea il disio", cioè che gli chiarisca ciò che ha appena detto. Virgilio allora spiega che in mezzo al Mediterraneo vi è l'isola di Creta ("un paese guasto", ormai in rovina) che visse l'età dell'oro. Secondo la leggenda, l'età dell'oro fu quella segnata dal regno di Saturno sul mondo, un'era in cui non c'era odio e non c'era bisogno di lavorare per vivere, e terminò con l'avvento di Giove sul trono degli dei. Al centro dell'isola vi è il monte Ida, adesso deserto ma un tempo fertile. Sull'Ida Rea mise al riparo Giove per evitare che Saturno lo divorasse, facendo suonare e cantare le Coribanti affinché coprissero i vagiti del neonato. Sul monte c'è un gran veglio, riferimento alla statua del Veglio di Creta, che tiene le spalle rivolte verso oriente e guarda verso Roma. Questa statua ha la testa d'oro, le braccia e il petto d'argento, l'addome è di bronzo, le gambe di ferro e il piede destro di terracotta. La statua poggia solo sul piede destro, l'altro lo tiene eretto. Le varie parti della statua, eccetto quella d'oro, sono rotte da una fessura da cui sgorgano lacrime. Cadendo al suolo, queste lacrime hanno scavato una grotta e sono arrivate fino all'Inferno, formando l'Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; scendendo poi ancor più giù hanno formato il Cocito, che Dante vedrà e di cui ora Virgilio non gli parla. E' necessario rivedere meglio tutta la spiegazione che l'autore dà sull'origine dei fiumi infernali, perché vi è un'allegoria della storia. Creta nella leggenda fu il centro dell'età dell'oro, la statua rappresenta il corso della storia umana: vi è prima l'età dell'oro, poi quella dell'argento (era di uomini stolti che litigavano e non veneravano le divinità, per questo furono eliminati da Giove), successivamente l'età del bronzo (età degli uomini prepotenti e violenti che si estinsero a causa delle continue guerre), poi venne quella del ferro (che dovrebbe essere l'età contemporanea, quella della miseria, in cui l'uomo deve lavorare per vivere). C'è poi il piede di terracotta, che rappresenta il peccato originale ed è quello che ancora l'uomo alla terra, infatti dei due piedi della statua è l'unico a poggiare al suolo. La statua volge le spalle a oriente e guarda a Roma, perché l'impero, quindi la chiave del potere temporale, passa dalla Grecia a Roma. La vecchia natura umana piange attraverso la fessura, queste lacrime formano i fiumi infernali ed il Cocito. La miseria umana è quindi l'origine dei fiumi infernali, così come è origine dell'Inferno stesso.
Udita la spiegazione di Virgilio, Dante non si spiega l'origine di questo fiumiciattolo. Egli non si è ancora reso conto che si tratta del Flegetonte, lo stesso fiume guadato con l'aiuto di Nesso e custodito dai centauri. Virgilio gli spiega che i cerchi infernali sono concentrici, sono tondi, quindi non deve meravigliarsi che pur avendoli percorsi quasi tutti possa ancora trovare cose nuove. Dante chiede ancora dove siano il Lete, che Virgilio non ha nominato, e il Flegetonte, che è originato dalle lacrime del Veglio di Creta. La guida dice che il rossore di questo corso d'acqua avrebbe dovuto fargli capire di essere in presenza del Flegetonte, il Lete invece sta alla sommità del Purgatorio, "là dove vanno l'anime a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa". Alla fine Virgilio dice che è tempo di lasciare la selva, raccomanda a Dante di seguirlo e di camminare sul sentiero di pietra.
Francesco Abate
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