domenica 8 luglio 2018

COMMENTO AL CANTO XXXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto XXXIII dell'Inferno si apre con la risposta del conte Ugolino, il dannato che azzanna la testa del suo vicino, alla richiesta di Dante con cui si è chiuso il canto precedente. Nella trascrizione della vicenda del conte, l'autore raggiunge vette di altissima poesia, quindi ritengo necessario riportare integralmente i settantacinque versi che compongono la risposta del dannato e solo dopo commentarli. Credo non si possa commentare quest'opera senza dar modo ai lettori di godere appieno di uno dei suoi passi più belli e più famosi.
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: << Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo.
Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò il velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lagrimai né rispuos' io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io lo fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno >>.
I primi tre versi del canto sembrano descrivere una bestia che distoglie l'attenzione dalla preda che sta sbranando, il dannato infatti solleva la bocca "dal fiero pasto" e risponde alla domanda che Dante gli aveva rivolto alla fine del canto precedente. Dapprima sottolinea quanto gli faccia male raccontare la sua vicenda, tanto dolore già lo prova solo riportandola alla mente. Egli però si sforza e racconta, non per il desiderio di essere ricordato o per redimersi, semplicemente per gettare infamia sulla sua vittima. Rivela poi di aver capito dal modo di parlare che Dante viene da Firenze. Racconta di essere il conte Ugolino della Gherardesca e il suo vicino è l'arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini. Questa è la seconda zona del nono cerchio, sono qui puniti i traditori politici e il conte Ugolino è vi è collocato come traditore dei ghibellini di Pisa per aver ceduto a Lucca e Firenze alcuni castelli. Il conte dice che non serve ricordare come fu catturato e ucciso, dato che è una storia nota a tutti e anche Dante, essendo fiorentino, non può ignorarla; racconterà quanto fu cruda la sua fine per permettere all'ascoltatore di dare un giudizio, come se convincendolo della crudeltà fattagli potesse rendere ancor più amara la pena per l'arcivescovo Ruggeri. Racconta che era rinchiuso già da diversi mesi nella Torre della Muda, una torre medievale di Pisa dove venivano tenute le aquile allevate dal comune durante la muta delle penne, soprannominata "torre della fame" proprio dopo la vicenda di Ugolino, quando un incubo gli anticipò gli eventi futuri. Nel sogno vide il capo della caccia e il signore ("maestro e donno") dar la caccia sul monte San Giuliano, quello che impedisce a Pisa e Lucca di vedersi, a un lupo con i suoi cuccioli. A inseguire le povere bestie c'erano tre importanti famiglie ghibelline (Gualandi, Sismondi e Lanfranchi) aiutate da cagne magre, bramose ed esperte ("studiose e conte"), e alla fine i poveri lupi finirono sbranati. Nel sogno è evidente la metafora della vicenda del conte, rappresentato dal lupo, e dei suoi figli, i cuccioli: essi sono braccati, ma l'arcivescovo (il capo della caccia) non si espose in prima persona e gli mise contro le più importanti famiglie ghibelline, queste furono poi la causa della tremenda morte del conte e dei suoi figli. Il sogno è una metafora in cui si mischia elemento irreale e animale con quello reale e umano, infatti mentre si vedono degli animali in una battuta di caccia, compaiono tre famiglie realmente esistenti della nobiltà pisana. Probabilmente questo miscelamento serve a rendere più semplice l'identificazione delle vittime (lupo e cuccioli) con personaggi umani, aumentando già da ora la tragicità dei versi. All'indomani mattina, il conte sentì i "suoi figli", intendendo con quest'espressione sia i figli che i nipoti, piangere nel sonno e implorare del cibo. Detto questo, interrompe un attimo il racconto dicendo all'ascoltatore che già solo immaginando quale presentimento ebbe in quel momento dovrebbe piangere, e se non piange, "di che pianger suoli?". Torna a raccontare: venne l'ora in cui si suole mangiare e lui sentì inchiodare l'uscio della sua cella, a quel punto guardò in faccia figli e nipoti senza dire parola, consapevole del terribile destino cui erano destinati. Non pianse (lo sottolinea spesso per spingere l'ascoltatore a comprendere il dramma che stava vivendo dentro in quel momento, dovendo nascondere la disperazione e apparire forte), piangevano però i suoi figli e Anselmo (che chiama affettuosamente Anselmuccio) gli chiese per quale motivo li guardasse in quel modo. Lui non pianse e non rivelò loro il suo presentimento, tutti tacquero per l'intero giorno e per l'intera notte, finché non venne la mattina successiva. Non appena la luce entrò nella cella, il conte poté vedere il volto dei suoi figli ormai sfigurato dalla fame, esattamente come il suo. A questo punto per il dolore prese a mordersi le mani e Anselmo, credendo lo facesse per sfamarsi, gli disse che avrebbero sofferto meno se avesse mangiato loro, chiudendo il discorso con una frase che evidenzia tutta la sua devozione per la figura paterna ("tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia"). Per non rattristarli ulteriormente, il conte tacque altri due giorni; nel ricordare questa lunga agonia, Ugolino chiede perché la terra non si aprì sotto i loro piedi. Al quarto giorno Gaddo si gettò ai suoi piedi e, ormai allo stremo, chiese al padre perché non l'aiutasse, poi morì. Quello del maggiore dei fratelli non fu un rimprovero nei confronti del padre, fu un lamento contro la terribile sorte patita. Dopo Gaddo, nei due giorni successivi, morirono anche gli altri tre. Reso ormai cieco dalla fame, per due giorni il conte brancolò sui loro corpi per riconoscerli e chiamò i loro nomi, poi la fame prese il sopravvento sul dolore e li mangiò. Finita di raccontare questa tragica vicenda, il conte azzanna il collo dell'arcivescovo con tanta forza da rompergli l'osso.
Sentito il racconto del conte Ugolino, Dante si lancia in un'invettiva contro Pisa. Non la pronuncia ad alta voce, la trascrive nei versi immediatamente successivi a quelli in cui racconta una delle pagine più nere della città. Il poeta apostrofa la città come vergogna degli italiani ("... vituperio de le genti / del bel paese là dove 'l sì suona" - l'Italia è descritta come paese in cui l'affermazione si esprime con il "sì"), poi auspica con una certa veemenza che le isole di Capraia e Gorgona chiudano la foce dell'Arno e lo facciano straripare, così che possa annegare tutti i pisani. Se il conte Ugolino aveva fama di aver tradito, scrive il poeta, non andavano puniti in modo tanto crudele i suoi figli e i suoi nipoti, i quali data la giovane età erano innocenti. Nell'invettiva Dante apostrofa Pisa come "novella Tebe", l'Inferno è infatti pieno di riferimenti mitologici a crimini orrendi avvenuti a Tebe, il poeta quindi paragona la città toscana ad una delle più corrotte dell'antichità. 
Dante e Virgilio passano nella terza zona del Cocito, dove sono puniti coloro che tradirono gli ospiti. I dannati qui hanno il viso rivolto all'insù, quindi le loro lacrime si congelano negli occhi stessi e provocano un maggior dolore. Sebbene il viso del poeta avesse perduto ogni sensibilità e non avvertisse più nulla, si accorge della presenza di un vento insistente e chiede spiegazioni a Virgilio, il quale si limita a dirgli che presto vedrà coi propri occhi da dove questo si origina. A un certo punto uno dei dannati chiede ai due di togliergli dagli occhi le lacrime ghiacciate, così che possa versarne di nuove e sfogare il proprio dolore. Nella richiesta del dannato si evidenzia un equivoco, egli infatti si rivolge ai poeti chiamandoli "O anime crudeli tanto che data v'è l'ultima posta", crede che siano due nuovi dannati destinati a quella zona dell'Inferno. Dante si offre di accontentarlo, ma solo a patto che riveli la propria identità, e per rafforzare la propria promessa auspica di essere destinato alla dannazione in quel luogo qualora dovesse venire meno al patto. Il dannato dichiara di essere Alberigo dei Manfredi (appartenente all'ordine laico dei cavalieri di Maria Vergine, fece uccidere due suoi parenti durante un pranzo a cui li aveva invitati). Adesso è punito con una pena superiore a quella che inflisse in vita ai parenti, quindi raccoglie "dattero per figo" (c'è anche un'allusione al suo crimine, egli infatti diede ai servi l'ordine di uccidere gli ospiti al momento di servire la frutta). Dante si stupisce, nell'anno in cui è ambientata la Commedia (1300) Alberigo era ancora vivo. Questi dichiara di non sapere come sia possibile che il suo corpo sia ancora nel mondo dei vivi mentre l'anima già è punita tra i morti, la Tolomea ha questo privilegio, sa però che, quando l'anima cade tra i dannati, il corpo è preso da un demonio che lo governa finché non arriva il momento stabilito per la morte. Alberigo gli rivela poi che dietro di lui giace l'anima di Branca Doria, genero di Michele Zanche (nominato nel canto XXII del poema) e suo assassino. Dante crede che sia una bugia, infatti Branca Doria era vivo nel 1300, il dannato però gli racconta che un demone si impossessò del suo corpo e di quello del congiunto che lo aiutò ben prima che Michele Zanche venisse ucciso e precipitasse tra i barattieri ("la dove bolle la tenace pece"). Finito il racconto, Alberigo invita Dante a mantenere la sua promessa e pulirgli gli occhi dalle lacrime ghiacciate, il poeta però non lo fa e giudica questa sua mancanza una cortesia nei suoi confronti. Il comportamento di Dante, che analizzato con leggerezza potrebbe sembrarci alquanto scorretto, è motivato dalla perfezione della giustizia divina: lenendo il dolore a chi patisce una pena sancita da Dio significherebbe contravvenire alla legge divina, che è perfetta. 
Il canto si conclude con un'invettiva contro i genovesi (Branca Doria fu genovese), che definisce lontani da ogni regola del bene e pieni di ogni vizio ("... uomini diversi / d'ogne costume e pien d'ogne magagna"). Si chiede perché non vengano sterminati e indica la vicenda di Branca Doria, già dannato benché vivente, come emblematica degli abitanti ("Ahi Genovesi, uomini diversi / d'ogne costume e pien d'ogne magagna, / perché non siete voi del mondo spersi? / Ché col peggiore spirito di Romagna / trovai di voi un tal, che per sua opra / in anima in Cocito già si bagna, / e in corpo par vivo ancor di sopra").

In questo canto Dante chiama la terza zona del Cocito "Tolomea". Tale nome è indicativo del peccato che lì è punito, il tradimento degli ospiti, e si riferisce probabilmente al personaggio biblico di Tolomeo, il quale fece uccidere durante un banchetto il suocero e i suoi figli. Per alcuni critici il richiamo è invece a Tolomeo d'Egitto, che fece assassinare Pompeo dopo averlo ospitato. Non è da escludere l'ipotesi secondo la quale Dante col nome Tolomea volle rifarsi a entrambe le vicende.
Una riflessione è d'obbligo sulla particolarità dei traditori puniti della Tolomea. Essi sono gli unici a patire il singolare destino di essere dannati ancor prima della morte. Tanto grave è il peccato di cui si macchiano, tradire coloro che ospitano, da rendere vana ogni possibilità di pentimento e da causare la dannazione nel momento stesso in cui è pensato. Branca Doria cade nella Tolomea prima di uccidere il suocero, quindi già il concepimento del piano omicida nel suo cuore è sufficiente a disumanizzarlo al punto tale da privarlo dell'anima: il corpo resta un involucro guidato da un demone mentre l'anima è immediatamente destinata all'eterna pena.

Francesco Abate    
   

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