Bruto Minore è un canto composto da Giacomo Leopardi nel dicembre del 1821 e pubblicato per la prima volta nelle Canzoni del 1824.
Composto da otto strofe, ciascuna di quindici versi sciolti, endecasillabi e settenari, insieme all'Ultimo canto di Saffo è una delle due "canzoni del suicidio", cioè quelle poesie in cui l'atto di togliersi la vita viene visto dal poeta come un'estrema e nobile manifestazione di un animo teso a grandi ideali che viene deluso dalla realtà del mondo.
Protagonista di questo canto è Bruto, uno degli assassini di Giulio Cesare, il quale, sconfitto a Filippi nel 42 a.C. da Antonio e Ottaviano, rinnega la "stolta virtù", accusa gli dèi di essere indifferenti ai casi dell'uomo e rifiuta ogni illusione di immortalità o di eternità nella memoria degli uomini.
Nella prima strofa troviamo Bruto che, sconfitto, decide di togliersi la vita ("...sudato, e molle di fraterno sangue, / Bruto per l'atra notte in erma sede, / fermo già di morir, gl'inesorandi / numi e l'averno accusa, / e di feroci note / invan la sonnolenta aura percote").
Bruto quindi ha già deciso di morire, prima di farlo però pronuncia un discorso contro le divinità e scuote la notte di parole dure (feroci note), che però non gli frutteranno né consolazione né l'eternità (invan la sonnolenta aura percote).
In questa prima strofa quindi è già introdotto, insieme al personaggio, quello che è il tema del canto: l'invettiva contro gli dèi e l'indifferenza della natura nei confronti degli eventi umani (infatti la notte è sonnolenta nonostante la sofferenza del nobile Bruto e il destino della grande Roma).
In questi versi si evidenzia come per Leopardi con la morte di Bruto finisce l'era eroica del mondo antico ed inizia la decadenza di Roma ("...giacque ruina immensa / l'italica virtute, onde alle valli / d'Esperia verde, al tiberino lido, / il calpestio de' barbari cavalli / prepara il fato ...").
Nella terza strofa l'autore segnala come i deboli si abituino a subire le proprie sventure senza combattere ("Preme il destino invitto e la ferrata / necessità gl'infermi / schiavi di morte: e se a cessar non vale / gli oltraggi lor, de' necessarii danni / si consola il plebeo..."). Questo non vale però per il prode, che al destino avverso muove guerra mortale, eterna perché non è abituato a cedere (di cedere inesperto), e quando viene sconfitto dal Fato non esita a togliersi la vita ("...quando nell'altro lato / l'amaro ferro intride, / e maligno alle nere ombre sorride").
Troviamo in questa strofa l'eroicità del suicidio, un'alternativa alla passiva accettazione di un destino avverso. Questo concetto viene enunciato dal poeta anche nello Zibaldone, ma col passare degli anni la visione eroica del suicidio in lui scemerà.
Nella quarta strofa Bruto si rivolge con durezza agli dèi, ai quali Spiace ... chi violento irrompe nel Tartaro. Gli dèi non tollerano che un uomo si tolga la vita, ma questa condanna nasce dalla loro viltà, infatti Bruto non esita a dichiarare che il coraggio del suicidio non c'è ne' molli eterni petti.
Nella strofa successiva Bruto dichiara fortunati gli animali, ai quali è concesso di morire serenamente in vecchiaia o comunque non sono condannati quando decidono di morire ("... Ma se spezzar la fronte / ne' rudi tronchi, o da montano sasso / dare al vento precipiti le membra, / lor suadesse affanno; / al misero desio nulla contesa / legge arcana farebbe"); solo agli uomini, figli di Prometeo, è vietato uccidersi quando la vita diventa avversa.
Nella sesta e settima strofa Bruto passa alla contemplazione della natura, che placida sovrasta le umane miserie senza mostrare né interesse né partecipazione. Si rivolge in particolare alla Luna, chiedendole come possa essere così tranquilla mentre si aprono le porte della rovina di Roma antica: "Cognati petti il vincitor calpesta, / fremono i poggi, dalle somme vette / Roma antica ruina; / tu sì placida sei?"
Nell'ultima strofa, Bruto non invoca gli dèi ("Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi / regi, o la terra indegna, / e non la notte moribondo appello"; in queste strofe anche terra e notte rappresentano due divinità) e nemmeno si affida alla memoria dei posteri, perché la memoria di un'anima prode non può affidarsi a putridi nepoti.
Negli ultimi versi Bruto si limita a chiedere alla natura di disfare il suo corpo e al vento di disperdere la sua memoria ed il suo nome: "... A me dintorno / le penne il bruno augello avido roti; / prema la fera, e il nembo / tratti l'ignota spoglia; / e l'aura il nome e la memoria accoglia").
Francesco Abate
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