giovedì 13 giugno 2024

ALLA PRIMAVERA, O DELLE FAVOLE ANTICHE DI GIACOMO LEOPARDI

 

Alla Primavera, o delle Favole antiche è una canzone composta da Giacomo Leopardi a Recanati nel gennaio 1822, composta da cinque strofe di diciannove versi ciascuna.

Il tema della canzone è l'identità tra l'immaginazione antica, la mitologia, e quella fanciullesca, oltre alla triste consapevolezza che la morte del mito ha privato la Natura della sua empatia nei confronti dell'essere umano, trasformando il mondo in un vuoto palcoscenico dove le persone vivono i propri drammi.
Il concetto dell'identità tra il mito e l'immaginazione fanciullesca Leopardi lo ribadisce anche nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Anche nello Zibaldone l'autore affronta il tema della nostalgia per i miti antichi, richiamando delle immagini che in seguito inserirà nella canzone: <<Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l'immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane, ec. ed entrandoci e vedendoci tutto in solitudine pur credevi tutto abitato e così de' fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare tra le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de' fiori ec. come appunto i fanciulli.>>

Nel titolo della canzone si può notare come i termini Primavera e Favole siano scritti con la lettera maiuscola. L'intento di Leopardi è quello di evidenziare le due parole, sottolineandone così anche l'identità.
Il poeta non parla di mito, ma di Favole antiche, perché riprende l'etimologia della parola fabula, la quale deriva dal verbo for, faris che significa "parlare" o "comunicare".

L'ultima strofa della canzone esprime con potenza e chiarezza il tema della poesia. Leopardi constata come l'uccello che canta non partecipa al dolore umano ("Ma non cognato al nostro / il gener tuo..."), quindi muore il mito di Filomela che, trasformata in usignolo dopo aver subito una violenza ed assistito ad alcune atrocità, canta al tramonto note di dolore per il genere umano. Con quello di Filomela muore tutto il mito antico, infatti l'Olimpo è vuoto ("Ahi ahi, poscia che vote / son le stanze d'Olimpo...").
La morte del mito rende la Natura sorda alle sofferenze umane, quindi Leopardi chiude la canzone esortandola ad essere, se non partecipe, almeno spettatrice, e di restituirgli l'ardore della prima giovinezza:
"tu le cure infelici e i fati indegni
tu de' mortali ascolta,
vaga natura, e la favilla antica
rendi allo spirito mio; se tu pur vivi,
e se de' nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell'aprica
terra s'alberga o nell'equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno."

Francesco Abate

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