domenica 11 febbraio 2018

COMMENTO AL CANTO XVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo
Dante e Virgilio sono ormai vicini al luogo in cui il Flegetonte cade nell'ottavo cerchio. Si sente già il rumore della cascata, un rumore simile a quello che fanno le api nell'alveare. Tre dannati si separano dalla schiera insieme a cui viaggiavano e corrono verso Dante, sempre tormentati dalla pioggia di fuoco, "la pioggia de l'aspro martiro". Le anime appartengono ancora alla schiera dei sodomiti e sono perciò puniti con l'eterna corsa sulla sabbia rovente, con fiamme che piovono dall'alto. I tre si avvicinano al poeta chiedendogli di fermarsi, dato che dall'abito lo hanno riconosciuto come loro concittadino. Dante indossa infatti il lucco, tipico abito fiorentino dell'epoca, inizialmente usato dai nobili e in seguito divenuto di uso comune. Nella richiesta i dannati fanno riferimento a Firenze come alla "nostra terra prava", sottolineandone subito la corruzione. Dante nel canto precedente ha rievocato i torti subiti a causa della sua onesta attività politica dalla città di Firenze  (per bocca del maestro Brunetto Latini), adesso torna a rimarcare il giudizio negativo attraverso questi nuovi personaggi. Il poeta subito nota sul corpo di costoro che l'hanno avvicinato delle piaghe causate dal fuoco, il loro corpo ne è coperto e ce ne sono sia di vecchie che di nuove. Ricordarsi di quei corpi martoriati nel momento in cui scrive l'opera gli provoca ancora dolore ("Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri"). Sentendo le grida dei tre sodomiti, Virgilio si ferma e dice a Dante che è giusto soddisfare la loro richiesta, aggiungendo che se non ci fosse la pioggia di fuoco, dovrebbe essere il poeta ad aver maggiore fretta di correre a parlare con loro ("a costor si vuole essere cortese. / E se non fosse il foco che saetta / la natura del loco, i' dicerei / che meglio stesse a te che a lor la fretta"). Le parole di Virgilio ci annunciano che si tratta di tre personaggi per cui Dante Alighieri, in quanto uomo politico fiorentino, deve nutrire grande rispetto. L'importanza dell'opera politica dei tre, agli occhi dell'autore, cancella l'infamia del peccato commesso nella sfera privata. I tre dannati vedono che i due poeti si sono fermati e riprendono il consueto modo di camminare, finché non gli arrivano vicino e, per non arrestare il loro movimento, iniziano a girare in tondo l'uno dietro l'altro. Dante ci descrive la scena con una metafora, paragona i tre ai lottatori che girano in tondo stando attenti a cogliere il momento giusto per afferrare l'avversario: "Qual sogliono i campion far nudi e unti, / avvisando lor presa e lor vantaggio, / prima che sien tra lor battuti e punti, / così rotando, ciascuno il visaggio / drizzava a me, sì che 'n contraro il collo / faceva ai piè continuo viaggio". Nel canto XV Brunetto Latini ha spiegato perché i sodomiti non possono arrestare la loro marcia, per la stessa ragione i tre sono costretti a girare in tondo pur di restare vicini al loro concittadino. Dei tre a parlare è Jacopo Rusticucci, che fu nominato nel 1254 procuratore del comune fiorentino per stabilire i patti con le città toscane, a cui i ghibellini distrussero la casa dopo la battaglia di Montaperti. Rusticucci prega Dante di non badare alla condizione misera in cui sono adesso, ma di ricordare la loro fama e, in forza di questa, ritenerli degni di sapere chi sia lui che da vivo cammina per l'Inferno ("Se miseria d'esto loco sollo / rende in dispetto noi e nostri prieghi, / ... e 'l tinto aspetto e brollo, / la fama nostra il tuo animo pieghi / a dirne chi tu se', che i vivi piedi / così sicuro per lo 'nferno freghi"). Fatta la preghiera, Jacopo presenta i suoi compagni e sé stesso. Davanti a lui c'è Guido Guerra, guelfo che comandò l'esercito fiorentino contro Arezzo nel 1255 e gli esuli fiorentini nella battaglia di Benevento del 1260 contro Manfredi, infatti di lui Rusticucci dice che "fece col senno assai e con la spada". Dietro invece c'è Tegghiaio Aldobrandi, podestà di Arezzo e comandante dell'esercito fiorentino nel 1260, anch'egli guelfo. Nel presentare sé stesso alla fine, Rusticucci dice che "la fiera moglie più ch'altro mi nuoce", dando quindi la colpa del suo peccato alla consorte la quale deve aver svegliato in lui un odio feroce contro le donne. Scoprendo chi sono i tre che ha di fronte, Dante sente la tentazione di gettarsi tra loro, ma la paura delle fiamme lo costringe a desistere. Il poeta è sicuro che, non ci fosse stato il pericolo del fuoco, nemmeno Virgilio avrebbe avuto da ridire qualora fosse sceso tra loro e li avesse abbracciati. Fatta questa riflessione, risponde ai tre dicendogli di non provare disgusto per la loro pena, ma solo un dolore tanto forte che per lungo tempo gli resterà dentro ("Non dispetto, ma doglia / la vostra condizion dentro mi fisse, / tanta che tardi tutta si dispoglia"). Aggiunge poi che le parole di Virgilio gli avevano fatto intuire che avrebbe incontrato personaggi di grande spessore e li lusinga dicendo che le sue attese erano state rispettate. Conclude spiegando di essere fiorentino e di conoscere le loro gesta, di essere in viaggio verso il luogo di eterna beatitudine ma di dover prima passare per il centro della Terra, dove è confitto Lucifero ("Di vostra terra sono, e sempre mai / l'ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai. / Lascio lo fele e vo per dolci pomi / promessi a me per lo verace duca; / ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi"). Sentite le parole di Dante, Rusticucci gli augura una lunga vita e che la sua fama risplenda dopo la morte, gli chiede poi se a Firenze valore e cortesia (che qui simboleggiano educazione civile e nobiltà d'animo) dimorano ancora come era ai loro tempi. La domanda del dannato nasce dalle cattive notizie udite da Guglielmo Borsiere, cavaliere e uomo di corte fiorentino, da poco morto e unitosi a loro nella pena. Dante non risponde direttamente a lui, si rivolge direttamente alla città di Firenze: "La gente nuova e i subiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni". L'analisi politica del poeta è breve ma chiara: egli vede come origine dei problemi della città la crescita smisurata delle ricchezze, che aveva richiamato gente da tutto il contado, la quale non si era mescolata a dovere con le tradizioni locali e alimentava la corruzione morale. I tre dannati capiscono la risposta di Dante, ne lodano la franchezza e gli chiedono di ricordarli alla gente quando sarà di nuovo tra i vivi, poi fuggono via di corsa.
Dante e Virgilio riprendono la marcia e si avvicinano alla cascata formata dalla discesa del Flegetonte verso l'ottavo cerchio. Il rumore delle acque è fortissimo e Dante lo descrive paragonandolo a quello del fiume Montone, presso San Benedetto dell'Alpe, nell'Appennino emiliano. Nei versi in cui spiega l'ubicazione del Montone, Dante cita il Monte Viso, che non è il Monviso ma il Monte Veso. Circa i versi "rimbomba là sovra San Benedetto / de l'Alpe per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto" esistono due interpretazioni differenti: alcuni leggono semplicemente un riferimento alla grande portata d'acqua della cascata, che fa un gran rumore perché ne raccoglie tanta che basterebbe per formarne mille; molti commentatori antichi invece ci videro una critica al monastero di San Benedetto d'Alpe, che aveva una piccola comunità formata da pochi monaci, e che invece Dante avrebbe voluto più numerosa; altri ancora lessero il termine "mille" come una variante di miles (termine latino che significa "soldati"), ritenendo quindi che il poeta volesse addirittura fortificato il monastero e difeso con un piccolo esercito. A questo punto Virgilio ordina a Dante di sciogliere la corda di cui è cinto e, una volta avutala, la getta nel burrone. Il poeta non capisce il motivo dell'azione del maestro e spera che accada presto ciò che egli aspetta, Virgilio ne intuisce il dubbio e lo rassicura dicendogli che presto verrà chi sta aspettando. Tra la meraviglia di Dante, che accresce la tensione dell'attesa giurando addirittura al lettore che è vero ciò che scrive, una figura risale il burrone nuotando come un marinaio che riemerge dopo essersi tuffato in mare per liberare l'ancora da uno scoglio. 
Dell'ultima parte del canto ha fatto molto discutere il significato simbolico della corda. Siamo quasi a metà dell'Inferno e fino ad ora Dante non aveva mai scritto di essere cinto da una corda, ciò rafforza la tesi che si tratti di un simbolo che solo in questa fase del poema acquisisce il significato voluto dall'autore. Secondo alcuni critici, che fanno riferimento alle parole "con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta", si tratta di un segno di penitenza con il quale il poeta in vita cercò di vincere la lussuria; per altri essa indica l'appartenenza di Dante al terzo ordine francescano; per altri ancora rappresenta la legge, di cui il poeta si libera perché in procinto di scendere tra i fraudolenti, che la violano di continuo. Le interpretazioni sono tante e non ce n'è una certa, quello della corda resta uno dei passi più enigmatici dell'intera opera.

Francesco Abate 
         

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