domenica 18 febbraio 2018

COMMENTO AL CANTO XVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

<< Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza! >>
Il XVII canto si apre con le parole di Virgilio, che così presenta Gerione a Dante. Nella mitologia greca, Gerione era un re celebre per la sua crudeltà, ucciso da Ercole in una delle sue fatiche. Nella Divina Commedia è invece un mostro che rappresenta la frode, il peccato che viene punito nell'ottavo cerchio da cui risale. Virgilio ce lo mostra come un mostro con la coda simile a quella degli scorpioni, animali velenosi, che arriva ovunque ("passa i monti e rompe i muri e l'armi") e rovina il mondo intero. Nella descrizione del mostro, è chiaro il riferimento all'inganno, il peccato che esso rappresenta. La fiera emerge dal burrone in cui Virgilio ha gettato la corda che cingeva Dante, solo la coda velenosa non emerge. Ha la testa umana, la "faccia d'uom giusto", perché caratteristica della frode è quella di non essere apparente, di essere celata da una finta onestà; il corpo è invece quello di un serpente, cosparso di segni complicati (nodi e rotelle) che rappresentano i complicati raggiri di cui è capace colui che inganna. Gerione è poi fatto di tanti colori quanti non se ne trovano nei celebri drappi di seta dei Tartari e dei Turchi, nemmeno le celebri tele di Aracne (formidabile tessitrice che osò sfidare Minerva e per questo fu mutata in ragno) erano tanto variopinte. Anche la straordinaria varietà di colori del mostro richiama alla finta immagine di colui che inganna, che sa apparire bello (quindi buono) per poi colpire con il veleno mortale della frode. Per mostrarci l'atteggiamento assunto da Gerione, Dante ricorre ad una doppia metafora: lo paragona sia alle barche tenute in parte nell'acqua ed in parte a terra, sia al castoro che tiene la coda in acqua e sembra a riposo, mentre sta solo aspettando che arrivino i pesci per poi divorarli. La fiera infatti si è posata sull'orlo di pietra del burrone e sembra inoffensiva, ma tiene nascosta la coda con la punta velenosa, che agita e tiene pronta all'attacco ("Nel vano tutta sua coda guizzava, / torcendo in su la velenosa forca / ch'a guisa di scorpion la punta armava"). Virgilio a questo punto dice che bisogna deviare il cammino dalla strada seguita fino ad arrivare alla bestia. I due poeti scendono alla propria destra e percorrono dieci passi sull'orlo del burrone, così da evitare la sabbia infuocata e la pioggia di fiamme.
Arrivati vicino Gerione, Dante si accorge che ci sono delle anime sedute sulla sabbia, vicino al burrone. Virgilio, affinché abbia una visione completa del girone, lo invita ad avvicinarsi e osservare la pena a cui essi sono sottoposti, intanto dice che parlerà con Gerione affinché questi li conduca all'ottavo cerchio. La guida impone però al poeta che i suoi "ragionamenti là sian corti", infatti la categoria degli usurai è tanto spregevole da non meritare la pietà e l'attenzione che invece sono state riservate ai sodomiti e a tante altre categorie di dannati. In tal senso è interessante anche l'ubicazione degli usurai, essi sono infatti nel cerchio dei violenti, nel girone dei violenti contro Dio, però sono proprio al limite dell'ottavo cerchio, quindi il loro peccato è molto vicino alla frode. In effetti l'usuraio è violento contro Dio perché viola la natura, ma allo stesso tempo è ingannatore perché finge di vendere una speranza (il prestito) e finisce per rovinare il cliente. Dante si allontana dal maestro e contempla gli usurai, a cui il dolore esce fuori in forma di pianto. Anche loro nella pena assumono un aspetto bestiale, agitano le mani per difendersi dalla sabbia rovente e dal fuoco, a Dante sembrano i cani che agitano il muso e le zampe nel tentativo di difendersi dalle pulci, dalle mosche o dai tafani ("Per li occhi fora scoppiava lor duolo; / di qua, di là soccorrien con le mani / quando a' vapori, e quando al caldo suolo: / non altrimenti fan di state i cani / or col ceffo or col piè, quando son morsi / o da pulci o da mosche o da tafani"). Guardando in viso i dannati, Dante non riconosce nessuno, nota però che al collo di ciascuno c'è una borsa colorata con uno stemma sopra disegnato, ha inoltre l'impressione che lo sguardo degli usurai si nutra della visione di quelle borse, come fossero una consolazione. In realtà le borse, che gli usurai portavano appese alla cintura in vita, nel girone infernale servono a ricordare il motivo del supplizio a cui essi sono destinati, il colore e i disegni (gli stemmi delle casate di appartenenza) rappresentano la vanità che li ha condannati al fuoco eterno. Il poeta nota una borsa dal colore giallo con disegnato un leone azzurro: è lo stemma della famiglia Gianfigliazzi, nobili fiorentini schierati dalla parte dei guelfi Neri. Rispettando l'ordine del maestro, Dante non si sofferma troppo su questo dannato e nemmeno si preoccupa di svelarne l'identità. Osserva un'altra borsa, dal colore rosso sangue e con un'oca bianca come stemma: è il simbolo della famiglia degli Obriachi, di parte ghibellina. D'un tratto un dannato che ha la borsa bianca con disegnato una grossa scrofa azzurra, quindi un appartenente alla famiglia padovana degli Scrovegni, si rivolge a lui. La critica identifica il dannato come Reginaldo, uomo tanto avaro da aver voluto in punto di morte le chiavi del suo scrigno, nella speranza che nessuno trovasse il suo denaro. Reginaldo dice a Dante di andar via, mostrando di non gradire l'esser visto in quella condizione, ma visto che parla a un vivente è lieto di annunciargli che Vitaliano del Dente, potestà di Vicenza prima e di Padova poi, siederà alla sua sinistra. Reginaldo conferma poi di essere padovano, ma di essere in mezzo a peccatori fiorentini, e non ne può più di sentire i compagni di pena che invocano la caduta nella loro schiera del re degli usurai, colui che porterà la borsa con tre becchi. I dannati fanno riferimento a Gianni Buiamonte della famiglia dei Becchi, gonfaloniere di giustizia nel 1293 la cui famiglia aveva come stemma tre capri o tre nibbi (la critica non è unanime). Reginaldo conclude il suo discorso facendo una smorfia simile al bue che si lecca il naso con la lingua, indicando il disgusto che ha dei fiorentini che gli stanno intorno. Descrivendo la smorfia del dannato, Dante ne accentua la bestialità. ("Qui distorse la bocca di fuor trasse / la lingua, come bue che 'l naso lecchi"). Il poeta non risponde alle parole di Reginaldo, per non contrariare la sua guida decide di tornare indietro. 
Lasciatisi gli usurai alle spalle, Dante trova Virgilio in groppa a Gerione. La guida lo invita ad essere ardito ed a montare sul mostro, gli dice però di stare davanti, così potrà difenderlo dalla coda velenosa del mostro. Gerione rappresenta la frode, non ci si può quindi fidare completamente, a difendere il poeta ci pensa la saggezza che lo sta guidando in questo viaggio. Inizialmente Dante ha paura e questa si manifesta con i sintomi tipici della febbre quartana (varietà clinica della malaria): le unghie perdono il colore abituale, il corpo trema di freddo anche solo guardando ambienti bui e freschi. Alla paura però subentra la vergogna di provarla, Dante davanti alla guida diventa come il servo che cerca di apparire forte. Monta sulla bestia, vorrebbe chiedere protezione alla guida ma la voce non esce a causa dell'emozione. Virgilio comunque lo cinge e lo sostiene con le braccia. La sequenza merita di essere letta con le parole dello stesso autore:
"Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo, 
tal divenn'io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I' m'assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com'io credetti: << Fa che tu m'abbracce >>.
Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne".
Virgilio raccomanda a Gerione, così da rassicurare Dante, di scendere lentamente e compiendo giri ampi ("pensa la nova soma che tu hai"). Per descrivere il movimento del mostro, Dante riprende la similitudine delle barche che ha usato prima: come l'imbarcazione viene fatta lentamente arretrare finché non è tutta in acqua, così indietreggiando Gerione si stacca dal bordo del burrone e si libra nell'aria. A questo punto il mostro compie un mezzo giro su sé stesso e avvia la discesa. Dante nel vedersi in volo ha paura, tanta da essere paragonabile a quella di Fetonte quando perse le redini del carro del sole, o a quella di Icaro quando sentì sciogliersi la cera che teneva unite le piume delle sue ali. I due miti citati appartengono alla mitologia greca. Il primo narra del figlio di Apollo che volle guidare il carro del sole, la sua inesperienza però lo portò a perdere il controllo del mezzo, bruciando parte del cielo e formando così la via Lattea, finché Zeus non lo fulminò e lo scagliò nel fiume Eridano. Il secondo invece narra di come Dedalo, imprigionato nel labirinto da Minosse, riuscì a fuggire col figlio Icaro costruendo delle ali con piume tenute insieme usando la cera; il figlio commise però l'errore di avvicinarsi troppo al sole, così la cerca si sciolse e lui morì cadendo in mare. Gerione nuota nell'aria e scende tanto lentamente che Dante, a causa anche delle tenebre, non se ne sarebbe accorto se non fosse per l'aria che dal basso gli sferza il viso. Il poeta sente il gorgo del Flegetonte che cade nell'ottavo cerchio e si sporge a guardare verso il basso, riuscendo a scorgere il fuoco e a sentire il pianto dei dannati, così si spaventa e stringe la presa sulla groppa del mostro. Gerione scende lentamente come il falco che, stanco per il gran volo, scende senza essere stato richiamato dal falconiere e senza aver catturato alcuna preda: scende lentamente compiendo cento giri e si posa sul fondo del burrone, nell'ottavo cerchio. Dante e Virgilio smontano dalla sua groppa e lui si dilegua nelle tenebre come la freccia scoccata dall'arco ("si dileguò come da corda cocca").

Francesco Abate

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