lunedì 26 febbraio 2018

COMMENTO AL CANTO XVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno li volge.
Gerione ha portato Dante e Virgilio nell'ottavo cerchio, detto Malebolge, dove sono puniti coloro che ingannarono chi non si fidava. Il poeta esordisce presentandoci il luogo, dicendoci che è fatto di pietra rossa ("pietra di color ferrigno") come l'altra riva che lo circonda. Il canto inizia con una descrizione della topografia del cerchio. Nel centro preciso del campo vi è un pozzo molto largo e profondo, che è il nono cerchio. Tra questo pozzo e l'alta parete che lo cinge c'è un ampio spazio circolare il cui fondo è diviso in dieci valli, sono le dieci bolge dell'ottavo cerchio ("Nel dritto mezzo del campo maligno / vaneggia un pozzo assai largo e profondo, / di cui suo loco dicerò l'ordigno. / Quel cinghio che rimane adunque è tondo / tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura, / e ha distinto in dieci valli il fondo"). Le bolge circolari sono paragonate dal poeta ai fossati che cingono le mura dei castelli al fine di proteggerli, e come tali fossati sono attraversati da ponticelli che permettono di attraversarli, così quei fossi infernali sono attraversati da scogli equidistanti che consentono di scavalcarli ed arrivare al pozzo centrale. 
Scesi dalla schiena di Gerione, Virgilio e Dante riprendono il cammino. La guida si muove verso sinistra e il pellegrino lo segue a breve distanza ("e 'l poeta / tenne a sinistra, e io dietro mi mossi"). Alla sua destra (egli percorre l'argine esterno della prima bolgia) Dante nota una nuova schiera di peccatori. Ad essere puniti nella prima bolgia sono i seduttori e i ruffiani: nudi e divisi in due schiere, si muovono gli uni nella parte interna del fosso, gli altri nella parte esterna. Il poeta paragona il movimento di quel gran numero di peccatori a quello dei pellegrini giunti a Roma per il giubileo del 1300 ("come i Roman per l'essercito molto, / l'anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, / verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, / da l'altra sponda vanno verso ìl monte"). I peccatori si muovono in direzioni opposte e divisi in schiere così come i pellegrini giunti a Roma per il giubileo, allorquando si era visto un flusso di gente muoversi verso la Basilica di San Pietro e un altro, in uscita dalla stessa, verso il monte Gianicolo. I dannati sono tormentati da demoni che li frustano sulla schiena. Dante descrive i demoni come cornuti, conferendo così loro un carattere bestiale ed alterandone l'umanità. Già la prima frustata fa accelerare di colpo i dannati, nel disperato tentativo di evitare le successive ("Ahi come facean lor levar le berze / a le prime percosse! già nessuno / le seconde aspettava né le terze"). 
Camminando, Dante vede un'immagine familiare e chiede a Virgilio di potersi fermare un attimo. La guida acconsente e gli permette di tornare un po' indietro per guardarlo meglio e parlargli. Il dannato, cercando di non essere riconosciuto, evidentemente vergognandosi di quella misera condizione, abbassa lo sguardo. Il poeta però lo riconosce e gli si rivolge con un tono che sa quasi di rimprovero, con delle parole ("se le fazion che porti non son false") che sanno quasi di beffa viste che sono rivolte ad un frodatore. Dante in pratica gli dice che non ha senso nascondere lo sguardo, visto che le sue fattezze non sono "false", alludendo alla falsità delle sue azioni in vita, e per confermargli di averlo riconosciuto lo chiama per nome e cognome: Venedico Caccianemico. Riconosciutolo, il poeta gli chiede come mai sia destinato a quella terribile pena. Venedico Caccianemico fu un nobile guelfo di Bologna che convinse la sorella Ghisolabella a concedersi alle voglie di Azzo VIII d'Este, per questo Dante lo colloca tra i ruffiani. Venedico racconta la sua storia di malavoglia, dice di aver condotto sua sorella a concedersi al marchese d'Este così come narra la storia a tutti nota, però conclude il suo discorso cercando di scaricare la colpa sul luogo natìo, Bologna, affermando che in quella bolgia vi siano più bolognesi di quanti ve ne siano in città. Venedico si mostra quindi un personaggio patetico che tenta di scaricare la sua colpa sulla sua città. Il suo discorso è interrotto dalla frustata di un demonio, il quale poi lo apostrofa con durissime parole ("Via, / ruffian! qui non son femmine da conio"). La durezza dell'aguzzino sembra quasi continuare quella di Dante. Il poeta aveva prima rinfacciato la natura di frodatore a Venedico, il demone nemmeno lo chiama per nome e lo apostrofa ricordandogli il peccato commesso, inoltre gli dice che non ci sono donne da ingannare per trarne profitto. Mentre Venedico cerca disperatamente di giustificare il peccato commesso, l'infamia dello stesso gli ricade addosso senza pietà. 
Dante si ricongiunge con Virgilio e insieme salgono su uno degli scogli che funge da ponte e permette l'attraversamento della prima bolgia. Mentre sono sul punto più alto del ponte ("là dov' el vaneggia"), la guida gli dice di fermarsi e lasciarsi guardare dai seduttori, che fino ad ora non ha potuto vedere in viso perché si muovono nella direzione opposta a quella dei ruffiani. Virgilio, senza che Dante glielo chieda, gli indica uno dei dannati e gli spiega che si tratta di Giasone, l'eroe della mitologia greca. Spiega che Giasone è lì punito perché sedusse e abbandonò prima Isifile e poi Medea. L'esempio di Giasone serve alla guida per spiegare al poeta che lì sono puniti i seduttori ("con lui sen va chi da tal parte inganna; / e questo basti de la prima valle / sapere e di color che 'n sé assanna").
Dante e Virgilio arrivano alla seconda bolgia. Sente gente che si lamenta, che sembra grufolare come i maiali e si picchia con le mani ("Quindi sentimmo gente che si nicchia / ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, / e sé medesma con le palme picchia"). Le pareti della bolgia sono ricoperte da muffa e il fondo è pieno di uno sterco "che con li occhi e col naso facea zuffa", cioè che risulta disgustoso alla vista e all'olfatto. Nello sterco sono immersi i dannati lì puniti. Lo sguardo del poeta si ferma su un personaggio dal capo tanto sporco da rendere impossibile vedere se ha la tonsura sulla sommità ("E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, / vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s'era laico o chierco"). Il dannato, accorgendosi di essere osservato, protesta e chiede perché mai Dante si soffermi su di lui e non guardi anche gli altri. Il poeta gli spiega di averlo riconosciuto, è Alessio Interminei. Su questa figura abbiamo poche notizie storiche, forse si tratta di un guelfo bianco di una famiglia lucchese. La reazione del dannato è diversa da quella avuta in precedenza da Venedico: non cerca alcun tipo di giustificazione, si limita a darsi dei colpi sulla testa e ad ammettere che le tante lusinghe fatte in vita lo hanno condotto a quella terribile pena. Nonostante ammetta la propria colpa, non c'è pietà nei confronti di Alessio Interminei nei versi che lo descrivono. Presentato in forma disgustosa, col capo lordo di sterco, anche nella sua reazione è messo in ridicolo, col poeta che non scrive "battendosi il capo", ma "battendosi la zucca", disumanizzandolo ulteriormente e rendendolo quasi una caricatura. Ancor più dura è la descrizione di Taide, che Virgilio indica a Dante chiedendogli di guardarla bene. Le parole della guida che la descrivono sono durissime, la indica con aggettivi terribili (sozza, scapigliata, puttana), ne sottolinea il terribile aspetto (scapigliata, unghie merdose) e ce la mostra mentre si agita e si graffia. Taide in vita fu adulatrice ma anche seduttrice, racchiudendo in sé i difetti di Giasone e quelli tipici del lusingatore. Per acuire la gravità del peccato che essa fece in vita, Dante ce la descrive solo attraverso le parole sdegnose e quasi rabbiose di Virgilio, infatti con Taide non c'è alcun incontro e alcun dialogo. Il canto si conclude con l'ordine di Virgilio "E quinci sian le nostre viste sazie".

Francesco Abate  

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