domenica 14 ottobre 2018

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla da lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand'io incominciai a render vano
l'udire e a mirare una de l'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Il canto inizia con l'indicazione del momento della giornata. Il sole sta tramontando, è il momento in cui colui che è in navigazione sente intenerirsi il cuore e ripensa a tutte le persone care che ha dovuto lasciare; è anche l'ora in cui lo squillo delle campane accende la nostalgia nell'uomo che ha appena intrapreso un viaggio. Dante inizia a non curarsi più di ciò che sente quando vede una delle anime alzarsi e chiedere attenzione con i gesti di una mano. L'anima giunge le mani e le tende al cielo, volge lo sguardo verso oriente, come se volesse far capire a Dio che non le interessa altro che pregare ("come dicesse a Dio: << D'altro non calme >>"). Lo spirito inizia a intonare l'ultimo inno della Compieta, che è l'ora canonica con cui termina l'ufficio divino. L'inno è così soave nella musica e nelle parole da mandare in estasi il poeta; le altre anime si associano al canto e lo fanno guardando verso le sfere celesti ("e l'altre poi dolcemente e devote / seguitar lei per tutto l'inno intero, / avendo li occhi a le superne rote"). 
Dante si rivolge adesso direttamente al lettore, chiedendogli di aguzzare l'ingegno e cogliere il significato della simbologia contenuta nei versi del canto, dicendogli che adesso non è difficile farlo e che non c'è quindi da cercare un senso tanto diverso da quello più evidente ("Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / ché 'l velo è ora ben tanto sottile, / certo che 'l trapassar dentro è leggiero"). Il poeta vede le anime nobili dei principi, "quello essercito gentile", guardare silenziosamente verso l'alto, aspettando spaventate qualcosa di imminente. Dall'alto scendono due angeli brandenti spade infuocate, tronche e prive della punta. Gli angeli sono vestiti con abiti verdi come foglie e hanno dietro le spalle ali dello stesso colore. Non è casuale la scelta del colore della speranza, sono infatti creature divine che portano alle anime la speranza che serve per continuare la lunghissima penitenza. Uno dei due rimane poco sopra la posizione dove sostano Dante, Virgilio e Sordello; l'altro scende dalla parte opposta; in mezzo alle due creature celesti stanno raccolte le anime dei principi. Il poeta riesce dalla sua posizione a vedere che gli angeli hanno i capelli biondi, ma non riesce a riconoscerne i lineamenti del viso a causa dello splendore eccessivo che irradiano, così come non si riesce a sostenere la vista diretta del sole. Non è casuale nemmeno questo riferimento allo splendore dei volti: la virtù celeste è tanto straordinaria da non essere percepibile coi soli mezzi sensibili, così l'occhio non può cogliere il divino. Sordello spiega che entrambi discendono "dal grembo di Maria" e su questa espressione ci sono diverse interpretazioni: alcuni credono intenda che essi discendono dalla protezione di Maria; altri sostengono che discendono dal Paradiso, dove risiede la Vergine; altri ancora leggono in questi versi che gli angeli discendono da Gesù, il frutto del grembo di Maria. Vengono a guardia della valle, spiega ancora Sordello, per proteggere le anime dal serpente che arriverà tra poco. Dante, non sapendo da quale direzione arriverà questo serpente, si accosta spaventato al corpo di Virgilio. 
Sordello invita i due pellegrini a scendere nella valle tra i principi e parlare con loro, che di certo gradiranno molto. Scendono solo di tre passi e si trovano nella valle; subito il poeta vede una delle anime che lo osserva come se volesse fare la sua conoscenza. La notte sta già scendendo, ma non è ancora così scuro da impedire ai due di vedere, così vicini, ciò che prima gli era nascosto dalla distanza. Si avvicinano l'uno all'altro e l'autore descrive la scena con un verso che rende una straordinaria trepidazione ("Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei"), infatti l'anima è quella di Nino Visconti, un suo amico, e si rallegra nel constatare che non sia finito all'Inferno. I due si salutano, poi Nino chiede all'amico quando sia morto, credendo che sia lì appunto come anima del Purgatorio. Dante gli spiega che è arrivato lì passando per l'Inferno e vive ancora la sua esistenza terrena, percorrendo un viaggio che gli permetterà di guadagnarsi quella eterna. Sentita la risposta, sia Sordello che Nino si sorprendono e si spostano un po' all'indietro, quasi spaventate dalla straordinarietà dell'evento a cui stanno assistendo. Il primo poi si volge verso Virgilio, l'altro invece si gira verso un'anima, quella di Corrado Malaspina, e lo incita a venire a vedere quale prodigio divino si sta manifestando. Nino si rivolge poi nuovamente a Dante e gli chiede, in nome del prodigio voluto da Dio, colui di cui non si conosce e non si può conoscere il fine delle azioni, di chiedere alla figlioletta Giovanna (che nel 1300 aveva nove anni) di chiamarlo laddove gli innocenti trovano risposta, cioè di pregare per lui. Amaramente il Visconti dice di non credere che la madre di Giovanna, sua moglie, lo ami più, visto che ha contratto un nuovo matrimonio: lei è la dimostrazione di quanto poco duri l'amore di una donna quando non è acceso dal contatto diretto col marito. Sua moglie non avrà però una degna sepoltura, conclude, visto che sul sepolcro si troverà lo stemma del nuovo marito, una vipera con un fanciullo in bocca, invece che il gallo di Gallura, stemma dei Visconti di Pisa. Nelle parole che il poeta fa rivolgere a Nino contro sua moglie non c'è solo l'amarezza del marito che vede la propria donna sposare un altro uomo, c'è anche un risentimento politico che probabilmente apparteneva allo stesso Dante: Nino Visconti fu un guelfo morto in esilio, il nuovo marito di sua moglie invece fu un Visconti di Milano, capo dei ghibellini di Lombardia. Nino dice queste cose esprimendo nell'aspetto quello zelo legittimo che gli avvampa nel cuore.
Gli occhi di Dante, fortemente desiderosi di vedere, si alzano verso il polo del cielo, là dove le stelle percorrono un cerchio meno ampio che all'equatore. Virgilio lo nota e gli chiede cosa stia guardando, lui risponde che sta osservando le tre stelle che sembrano far ardere tutto il polo celeste. La guida gli spiega che le quattro stelle che ha visto al mattino sono adesso basse sull'orizzonte e si sono levate le tre che adesso sta guardando. In questa spiegazione è espresso un concetto molto importante ai fini del raggiungimento della beatitudine eterna: le virtù cardinali arrivati a questo punto del cammino non bastano più, perché si possa arrivare alla contemplazione dell'Eterno è necessario avvalersi dell'aiuto di Dio, di quelle virtù (teologali) che hanno origine direttamente dall'Onnipotente; l'uomo non può farcela più coi suoi soli mezzi, deve per forza avvalersi dell'aiuto della grazia divina. 
Mentre Virgilio spiega a Dante delle virtù teologali, Sordello si ritrae e indica ai due una biscia, forse quella che porse a Eva il frutto del peccato originale. Il serpente striscia tra l'erba e i fiori, perché la tentazione si fa strada tra le cose belle. Dante non si accorge del momento in cui si alzano in volo, ma gli angeli iniziano a sbattere le ali e il solo fruscio di queste basta a scacciare la bestia, poi tornano ai loro posti. 
L'anima che si era avvicinata a Nino Visconti quando l'aveva chiamata non smette di guardare Dante mentre gli angeli scacciano il serpente. Questa si rivolge al poeta e gli augura che la grazia divina dia alla sua volontà tanta forza da condurlo alla sommità del monte, gli chiede poi di riferirgli, qualora ne abbia, notizie della Lunigiana (Val di Magra) o della zona circostante; dichiara di essere Corrado Malaspina, discendente di Corrado I marchese di Mulazzo, che amò la sua famiglia di un amore che adesso si sta liberando delle caratteristiche terrene. Dante dice di non essere mai stato nei suoi possedimenti, ma la fama della liberalità dei Malaspina è viva in tutta Europa (diversi trovatori provenzali l'avevano celebrata), così le qualità di quella gente è nota anche a chi non è mai stato in quelle terre. Incassata la lode del poeta, Corrado ne predice l'esilio, anticipandogli l'ospitalità che proprio nelle sue terre troverà: il sole non sarà ancora tornato sette volte nell'ariete, quindi non passeranno sette anni, che la buona opinione di Dante sarà rafforzata dai fatti, come se venisse attaccata alla sua testa con dei chiodi, a meno che non muti nel frattempo il giudizio divino.

A differenza dei precedenti, questo canto abbandona la politica e torna a dedicarsi alla religione. Le anime dei principi passano in secondo piano, buona parte del canto ci dimostra come non bastino per giungere alla beatitudine le virtù dell'uomo retto (virtù cardinali), ma servano anche quelle che discendono direttamente da Dio (fede, speranza e carità). A rafforzare il concetto, oltre che l'immagine delle stelle, c'è la scena degli angeli e della biscia: anche in mezzo all'apparente quiete dell'anima può sorgere la tentazione (la biscia) e solo il diretto intervento di Dio attraverso la speranza (gli angeli vestiti di verde) può scacciarla e impedire alle anime di deviare dalla retta via. Gli angeli hanno armi spuntate, basta infatti la sola presenza di Dio per cacciare via la tentazione, non c'è bisogno di combattere.
In questo canto sembra quasi stonare l'inserimento di Corrado Malaspina, che riporta il poema su un piano meno teologico. Questa presenza si spiega con il bisogno del poeta di ringraziare coloro che lo ospitarono nel periodo dell'esilio, quindi usò il suo poema per tessere le lodi della famiglia.

Francesco Abate
   
  

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