prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia? >>
<< Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo;
domandal tu che più li t'avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco'lo. >>
Il canto si apre col dialogo tra due anime le quali, meravigliate dal prodigio di un vivo che tra loro cammina aprendo e chiudendo gli occhi a suo piacimento (non dimentichiamo che loro sono ciechi), si chiedono chi sia costui. Le due anime appartengono a Guido del Duca e Rinieri da Calboli e già da questo primo dialogo possiamo dedurne la differenza del carattere: il primo rivolge parole sdegnose, quasi indignate; il secondo invece, altrettanto curioso, invita il primo a indagare e gli raccomanda proprio di essere dolce, di smorzare la propria rudezza. Uno dei due si rivolge poi al poeta e gli chiede di dirgli, per carità, chi sia e da dove provenga. Dante per spiegare il suo luogo di provenienza fa riferimento al fiume che nasce sul monte Falterona e compie un percorso di oltre cento miglia prima di sfociare nel mare, omette poi di dire il proprio nome giustificandosi col fatto di non essere ancora famoso, quindi conoscere il suo nome non sarebbe loro di aiuto ("E io: << Per mezza Toscana si spazia / un fiumicel che nasce in Falterona, / e cento miglia di corso nol sazia. / Di sovr'esso rech'io questa persona: / dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, / ché 'l nome mio ancor molto non suona >>").
L'anima che ha interrogato Dante gli risponde che, se ha capito bene, lui parla dell'Arno; il compagno chiede perché il poeta abbia omesso il nome del fiume come si fa con qualcosa di cui ci si vergogna. L'altro, cioè Guido del Duca, dice di non saperlo, però afferma che è giusto che sparisca il nome di quel fiume, perché le genti che abitano i luoghi che vanno dal suo principio e per tutto il suo corso fuggono dalla virtù come le bisce, come se questa fosse loro nemica, e lo fanno o per una corruzione insita nel luogo o per la bassezza della loro morale. Il fiume nasce dove sono gli abitanti del Casentino, che Guido chiama "brutti porci", riferendosi al castello di Porciano e agganciandosi al riferimento fatto poco prima alla maga Circe ("ond' hanno sì mutata lor natura / li abitator de la misera valle, / che par che Circe li avesse in pastura"); trova poi gli Aretini, i quali minacciano più di quanto possano permettersi; scendendo arriva al cospetto di Firenze, dove gli abitanti sono ancora più avidi e sanguinari; nella parte inferiore, dove il fiume scorre tortuoso, trova i pisani la cui astuzia e malizia sono paragonabili a quelle delle volpi a caccia. Terminata questa invettiva contro le varie popolazioni della Toscana, Guido del Duca dice che Dante farebbe bene ad ascoltare ciò che vede nel futuro e che dirà nonostante Rinieri lo stia ascoltando. Il nipote dello stesso Rinieri, Fulcieri da Calboli, si dedicherà alla vendetta dei Guelfi Neri sui Bianchi e ne ucciderà tanti, privando sé stesso dell'onore e venendo ricompensato per le sue uccisioni. In effetti Fulcieri divenne podestà di Firenze nel 1303 e si dedicò con crudeltà e cinismo alla cattura e all'uccisione dei nemici politici; d'apprima fu ricompensato dai suoi alleati, poi fu condannato dal giudice Donato di Alberto Ristori e fu prima torturato, poi decapitato. Il giudizio di Dante, espresso per bocca di Guido del Duca, sull'operato di Fulcieri è durissimo: i danni fatti da lui renderanno impossibile una pacificazione per mille anni. Udendo questa profezia riguardante suo nipote, Rinieri si rattrista.
Sentite le parole e la profezia dell'anima che ha di fronte, Dante è preso dalla curiosità di scoprire chi siano quei due e li prega di dirglielo. La risposta arriva sempre da Guido, che prima gli fa notare che chiede di fare ciò che lui non ha fatto, poi però gli risponde, visto che Dio emana attraverso di lui tanta grazia da rendergli possibile un viaggio nell'aldilà da vivo. Nella risposta si vede ancora la fierezza del personaggio, che sottolinea un comportamento scorretto dell'interlocutore e non si rifiuta di rispondergli solo per amore della grazia divina. Si presenta come Guido del Duca, dice che tanta invidia aveva in corpo da provare astio per chiunque fosse lieto. Dichiara di raccogliere ciò che ha seminato, infine si chiede perché gli uomini si perdano dietro i beni che non possono essere divisi, cioè quelli materiali ("Fu il sangue mio d'invidia sì riarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m'avresti di livore sparso. / Di mia semente cotal paglia mieto; / o gente umana, perché poni 'l core / là 'v' è mestier di consorte divieto?"). Presenta poi il suo compagno come Rinieri, pregio e onore della casa da Calboli, di cui nessuno degli eredi ha preso il valore.
Non è solo il sangue dei da Calboli a essere privo delle virtù che servono per la cavalleria e l'arte ("al vero e al trastullo"), ma entro i confini della Romagna tanto sono le serpi velenose che sarebbe impossibile estirparle tutte. Guido del Duca approfitta della presentazione del compagno per lanciarsi in un'invettiva contro la Romagna. Si chiede dove siano finite alcune personalità di alto profilo della politica romagnola: Lizio, signore di Valbona, ricordato da Boccaccio come uomo di buoni costumi, nonché alleato di Rinieri per la conquista di Forlì; Arrigo Mainardi, amico dello stesso Guido del Duca; Pier Traversaro, signore di Ravenna; Guido di Carpegna, podestà di Ravenna, il quale lottò contro Federico II. Inveisce poi contro i romagnoli, diventati bastardi, e riprende con l'elenco di altre personalità che ricorda con nostalgia: Fabbro dei Lambertazzi, capo dei ghibellini della Romagna e podestà di alcuni comuni tra cui Pisa e Modena; Bernardino di Fosco, il quale nacque di umili origini ("di picciola gramigna") e per virtù divenne podestà di prima di Pisa e poi di Siena. Dice poi a Dante di non meravigliarsi se lui rimpiange gente come Guido da Prata, Ugolino d'Azzo e Federico Tignoso, famiglie come Traversara e Anastagi (purtroppo senza eredi), e i costumi del tempo passato che ora sono scomparsi, perché la gente è diventata malvagia. Guido chiede poi alla città di Bretinoro perché non sparisca, facendo come le famiglie che sono andate via per non farsi corrompere dai costumi degenerati ("O Bretinoro, ché non fuggi via, / poi che gita se n'è la tua famiglia / e molta gente per non esser ria?"). Bene fa Bagnacavallo che non figlia (si riferisce in questo caso alla famiglia Malvicini; associa i comuni alle famiglie che li reggono), male fanno invece Castrocaro e Conio, che si ostinano a generare conti tanto corrotti. Bene fanno i Pagani, signori di Faenza, a non produrre altri eredi, anche se non potranno mai cancellare alcune macchie sull'onore. Ha fatto bene Ugolino dei Fantolini, che ha lasciato solo discendenti femmine e quindi non può più vedere disonorato il proprio nome. Guido interrompe di colpo l'invettiva e invita Dante ad andare via, infatti tutti quei ricordi gli hanno fatto venire voglia di piangere.
I poeti si incamminano, confidando che il silenzio delle anime sottintende la correttezza del loro cammino, infatti in caso di errore quelle anime caritatevoli di sicuro sarebbero intervenute. Rimasti soli, sentono riecheggiare nell'aria un grido: << Chiunque mi troverà, mi ucciderà >>. Le parole pronunciate dal grido fanno riferimento alla maledizione che cadde su Caino dopo che ebbe ucciso Abele, siamo quindi al cospetto di un esempio di invidia punita e, come gli esempi di virtù all'inizio, sono le voci che li palesano a Dante. Appena svanita la prima voce, ne arriva una seconda che dice: << Io sono Aglauro che divenni sasso >>. La seconda voce richiama l'episodio mitologico di Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, la quale ostacolò l'amore di sua sorella Erse per il dio Mercurio e da quest'ultimo fu mutata in sasso. Spaventato, il poeta si sposta a destra e si addossa a Virgilio, il quale gli spiega che queste voci sono il richiamo che dovrebbe tenere l'uomo entro i suoi limiti, ma gli umani cadono nelle trappole di Lucifero e si lasciano tirare verso di lui; l'universo mostra all'uomo le sue meraviglie e le rende conoscibili tramite l'intelletto, ma gli uomini si interessano solo delle cose temporali e per questo vengono puniti dall'onnisciente, da Dio ("ed el mi disse: << Quel fu 'l duro camo / che dovria l'uom tener dentro a sua meta. / Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo / de l'antico avversaro a sé vi tira; / e però poco val freno o richiamo. / Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne, / e l'occhio vostro pur a terra mira; / onde vi batte chi tutto discerne >>").
Della biografia dei due personaggi centrali del canto, Guido del Duca e Rinieri da Calboli, ho detto poco perché scarse sono le notizie biografiche certe sul loro conto. L'importanza storica dei personaggi tra l'altro non rende necessario un grande approfondimento in tal senso, semplicemente è importante sapere che furono due nobili romagnoli. Rinieri fu a più riprese impegnato nella conquista di Forlì, su Guido si sa davvero pochissimo e i critici spesso si sono smentiti tra loro. Come detto sopra, ci basti sapere che fu un nobile romagnolo e che Dante lo pone come rappresentante dell'amor di patria, infatti rimpiange i bei costumi della Romagna di un tempo e maledice la corruzione contemporanea.
L'anima che ha interrogato Dante gli risponde che, se ha capito bene, lui parla dell'Arno; il compagno chiede perché il poeta abbia omesso il nome del fiume come si fa con qualcosa di cui ci si vergogna. L'altro, cioè Guido del Duca, dice di non saperlo, però afferma che è giusto che sparisca il nome di quel fiume, perché le genti che abitano i luoghi che vanno dal suo principio e per tutto il suo corso fuggono dalla virtù come le bisce, come se questa fosse loro nemica, e lo fanno o per una corruzione insita nel luogo o per la bassezza della loro morale. Il fiume nasce dove sono gli abitanti del Casentino, che Guido chiama "brutti porci", riferendosi al castello di Porciano e agganciandosi al riferimento fatto poco prima alla maga Circe ("ond' hanno sì mutata lor natura / li abitator de la misera valle, / che par che Circe li avesse in pastura"); trova poi gli Aretini, i quali minacciano più di quanto possano permettersi; scendendo arriva al cospetto di Firenze, dove gli abitanti sono ancora più avidi e sanguinari; nella parte inferiore, dove il fiume scorre tortuoso, trova i pisani la cui astuzia e malizia sono paragonabili a quelle delle volpi a caccia. Terminata questa invettiva contro le varie popolazioni della Toscana, Guido del Duca dice che Dante farebbe bene ad ascoltare ciò che vede nel futuro e che dirà nonostante Rinieri lo stia ascoltando. Il nipote dello stesso Rinieri, Fulcieri da Calboli, si dedicherà alla vendetta dei Guelfi Neri sui Bianchi e ne ucciderà tanti, privando sé stesso dell'onore e venendo ricompensato per le sue uccisioni. In effetti Fulcieri divenne podestà di Firenze nel 1303 e si dedicò con crudeltà e cinismo alla cattura e all'uccisione dei nemici politici; d'apprima fu ricompensato dai suoi alleati, poi fu condannato dal giudice Donato di Alberto Ristori e fu prima torturato, poi decapitato. Il giudizio di Dante, espresso per bocca di Guido del Duca, sull'operato di Fulcieri è durissimo: i danni fatti da lui renderanno impossibile una pacificazione per mille anni. Udendo questa profezia riguardante suo nipote, Rinieri si rattrista.
Sentite le parole e la profezia dell'anima che ha di fronte, Dante è preso dalla curiosità di scoprire chi siano quei due e li prega di dirglielo. La risposta arriva sempre da Guido, che prima gli fa notare che chiede di fare ciò che lui non ha fatto, poi però gli risponde, visto che Dio emana attraverso di lui tanta grazia da rendergli possibile un viaggio nell'aldilà da vivo. Nella risposta si vede ancora la fierezza del personaggio, che sottolinea un comportamento scorretto dell'interlocutore e non si rifiuta di rispondergli solo per amore della grazia divina. Si presenta come Guido del Duca, dice che tanta invidia aveva in corpo da provare astio per chiunque fosse lieto. Dichiara di raccogliere ciò che ha seminato, infine si chiede perché gli uomini si perdano dietro i beni che non possono essere divisi, cioè quelli materiali ("Fu il sangue mio d'invidia sì riarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m'avresti di livore sparso. / Di mia semente cotal paglia mieto; / o gente umana, perché poni 'l core / là 'v' è mestier di consorte divieto?"). Presenta poi il suo compagno come Rinieri, pregio e onore della casa da Calboli, di cui nessuno degli eredi ha preso il valore.
Non è solo il sangue dei da Calboli a essere privo delle virtù che servono per la cavalleria e l'arte ("al vero e al trastullo"), ma entro i confini della Romagna tanto sono le serpi velenose che sarebbe impossibile estirparle tutte. Guido del Duca approfitta della presentazione del compagno per lanciarsi in un'invettiva contro la Romagna. Si chiede dove siano finite alcune personalità di alto profilo della politica romagnola: Lizio, signore di Valbona, ricordato da Boccaccio come uomo di buoni costumi, nonché alleato di Rinieri per la conquista di Forlì; Arrigo Mainardi, amico dello stesso Guido del Duca; Pier Traversaro, signore di Ravenna; Guido di Carpegna, podestà di Ravenna, il quale lottò contro Federico II. Inveisce poi contro i romagnoli, diventati bastardi, e riprende con l'elenco di altre personalità che ricorda con nostalgia: Fabbro dei Lambertazzi, capo dei ghibellini della Romagna e podestà di alcuni comuni tra cui Pisa e Modena; Bernardino di Fosco, il quale nacque di umili origini ("di picciola gramigna") e per virtù divenne podestà di prima di Pisa e poi di Siena. Dice poi a Dante di non meravigliarsi se lui rimpiange gente come Guido da Prata, Ugolino d'Azzo e Federico Tignoso, famiglie come Traversara e Anastagi (purtroppo senza eredi), e i costumi del tempo passato che ora sono scomparsi, perché la gente è diventata malvagia. Guido chiede poi alla città di Bretinoro perché non sparisca, facendo come le famiglie che sono andate via per non farsi corrompere dai costumi degenerati ("O Bretinoro, ché non fuggi via, / poi che gita se n'è la tua famiglia / e molta gente per non esser ria?"). Bene fa Bagnacavallo che non figlia (si riferisce in questo caso alla famiglia Malvicini; associa i comuni alle famiglie che li reggono), male fanno invece Castrocaro e Conio, che si ostinano a generare conti tanto corrotti. Bene fanno i Pagani, signori di Faenza, a non produrre altri eredi, anche se non potranno mai cancellare alcune macchie sull'onore. Ha fatto bene Ugolino dei Fantolini, che ha lasciato solo discendenti femmine e quindi non può più vedere disonorato il proprio nome. Guido interrompe di colpo l'invettiva e invita Dante ad andare via, infatti tutti quei ricordi gli hanno fatto venire voglia di piangere.
I poeti si incamminano, confidando che il silenzio delle anime sottintende la correttezza del loro cammino, infatti in caso di errore quelle anime caritatevoli di sicuro sarebbero intervenute. Rimasti soli, sentono riecheggiare nell'aria un grido: << Chiunque mi troverà, mi ucciderà >>. Le parole pronunciate dal grido fanno riferimento alla maledizione che cadde su Caino dopo che ebbe ucciso Abele, siamo quindi al cospetto di un esempio di invidia punita e, come gli esempi di virtù all'inizio, sono le voci che li palesano a Dante. Appena svanita la prima voce, ne arriva una seconda che dice: << Io sono Aglauro che divenni sasso >>. La seconda voce richiama l'episodio mitologico di Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, la quale ostacolò l'amore di sua sorella Erse per il dio Mercurio e da quest'ultimo fu mutata in sasso. Spaventato, il poeta si sposta a destra e si addossa a Virgilio, il quale gli spiega che queste voci sono il richiamo che dovrebbe tenere l'uomo entro i suoi limiti, ma gli umani cadono nelle trappole di Lucifero e si lasciano tirare verso di lui; l'universo mostra all'uomo le sue meraviglie e le rende conoscibili tramite l'intelletto, ma gli uomini si interessano solo delle cose temporali e per questo vengono puniti dall'onnisciente, da Dio ("ed el mi disse: << Quel fu 'l duro camo / che dovria l'uom tener dentro a sua meta. / Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo / de l'antico avversaro a sé vi tira; / e però poco val freno o richiamo. / Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne, / e l'occhio vostro pur a terra mira; / onde vi batte chi tutto discerne >>").
Della biografia dei due personaggi centrali del canto, Guido del Duca e Rinieri da Calboli, ho detto poco perché scarse sono le notizie biografiche certe sul loro conto. L'importanza storica dei personaggi tra l'altro non rende necessario un grande approfondimento in tal senso, semplicemente è importante sapere che furono due nobili romagnoli. Rinieri fu a più riprese impegnato nella conquista di Forlì, su Guido si sa davvero pochissimo e i critici spesso si sono smentiti tra loro. Come detto sopra, ci basti sapere che fu un nobile romagnolo e che Dante lo pone come rappresentante dell'amor di patria, infatti rimpiange i bei costumi della Romagna di un tempo e maledice la corruzione contemporanea.
Francesco Abate
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