Noi eravamo al sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che, salendo, altrui dismala:
ivi così una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l'arco suo più tosto piega.
Dante e Virgilio sono arrivati alla sommità della scala, dove la montagna si restringe per la seconda volta e forma una cornice come quella da cui provengono, solo che questa è più corta. A differenza della prima cornice, non ci sono bassorilievi o immagini, la via e la parete hanno solo il colore della roccia. Virgilio si rende conto che, se volessero fermarsi ad attendere qualcuno a cui chiedere la strada da seguire per continuare la salita, perderebbero troppo tempo. La guida fissa il sole, poi si volge a destra e all'astro rivolge una preghiera, dicendo che in lui ripone la sua fiducia e chiedendogli di guidarlo. Il poeta mantovano indirettamente si rivolge a Dio, infatti il sole è l'astro che per volontà divina illumina il mondo, adesso gli chiede di illuminarlo circa la via da seguire. Quando già i due pellegrini hanno percorso un miglio, coperto in poco tempo per la voglia di proseguire che li anima, sentono volare verso di loro degli spiriti, che però non vedono, le cui voci li invitano a partecipare alla mensa della carità ("e verso noi volar furon sentiti, / non però visti, spiriti parlando / a la mensa d'amor cortesi inviti"). La prima voce dice "Vinum non habent", riferendosi al miracolo delle nozze di Cana, il primo compiuto da Gesù: la frase fu pronunciata da Maria (in latino significa "Non hanno vino") e servì a chiedere e ottenere il prodigio della trasformazione dell'acqua in vino. Ancora non è svanita questa prima voce che ne arriva una seconda, la quale urla "I' sono Oreste", riferendosi all'episodio di Pilade che si presentò come Oreste (figlio di Agamennone) per morire al posto dell'amico. Dante chiede a Virgilio cosa siano queste voci, intanto ne ode una terza che esprime il comandamento supremo di Gesù, amare anche i propri nemici. Virgilio spiega al suo discepolo che in questa cornice sono puniti i peccati di invidia, i peccatori sono sferzati con voci che rammentano esempi di umiltà (la Vergine che affida a suo figlio la risoluzione di un problema, l'amico che si sacrifica e il comandamento dell'amore), e suppone che prima di abbandonare quel posto si udiranno voci che narrano il contrario, cioè esempi di invidia punita. Avviene in questa cornice ciò che è avvenuto nella prima, all'ingresso sono evidenziati esempi della virtù contraria al peccato punito e all'uscita invece i mali causati dal peccato stesso, solo che qui sono le voci a raccontarli e non le immagini a mostrarli.
Virgilio esorta Dante ad aguzzare la vista, così da vedere le anime sedute lungo la parete. Il poeta ubbidisce e scorge le anime vestite di mantelli dello stesso colore della pietra. Essi gridano a Maria e ai santi di pregare per loro. Vedendoli meglio, l'autore dice di non credere che esista sulla Terra un uomo tanto insensibile da riuscire a non commuoversi davanti a quello spettacolo ("Non credo che per terra vada ancoi / omo sì duro, che non fosse punto / per compassion di quel ch'i' vidi poi"). Avvicinatosi alle anime, non appena riesce a vederne meglio la condizione, non può trattenere le lacrime. Sono vestiti di cilicio, un panno fatto di setole che è freddo e punge il corpo di chi lo indossa, ciascuno regge l'altro con la spalla e tutti sono poggiati alla roccia della montagna. Stanno come i ciechi che chiedono l'elemosina davanti alle chiese, che cercano di sollevare il capo al di sopra degli altri così da suscitare la carità di chi li guarda ("Così li ciechi, a cui la roba falla, / stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, / e l'uno il capo sovra l'altro avvalla, / perché 'n altrui pietà tosto si pogna, / non pur per lo sonar de le parole, / ma per la vista che non meno agogna"). Come ai ciechi non dà alcun beneficio la luce del sole, così alle anime è negata la luce della grazia divina; a tutti sono cucite le palpebre con del fil di ferro per tenergli gli occhi chiusi, così come si faceva con gli sparvieri per addomesticarli. A Dante sembra di oltraggiare quelle anime perché può vederle senza essere visto, si volta verso Virgilio per chiedergli consiglio ma questi, senza neanche attendere la domanda, lo esorta a parlare e ad essere breve e chiaro (l'autore usa arguto, parola che deriva dal latino arguere, << mettere in chiaro >>).
Virgilio sta accanto a Dante, sul lato dove la cornice non ha bordo, dall'altro lato stanno le anime degli invidiosi. Il poeta si rivolge a loro, che sono sicuri di arrivare a vedere la grazia divina, gli augura di avere presto la remissione dei loro peccati così che ogni macchia della loro esistenza sia cancellata, infine gli chiede se tra loro vi sia qualche cittadino italiano, dicendo che forse a questo tornerà vantaggioso essere riconosciuto al fine di ottenere un suffragio che ne abbrevi la pena ("... << O gente sicura >>, / incominciai, << di veder l'alto lume, / che 'l disio vostro solo ha in sua cura, / se tosto grazia resolva le schiume / di vostra coscienza, sì che chiaro / per essa scenda de la mente il fiume, / ditemi, ché mi fia grazioso e caro, / s'anima è qui tra voi che sia latina; / e forse lei sarà buon s'io l'apparo >>"). Una voce proveniente da poco lontano gli fa notare che lì sono tutti cittadini della vera città, la città celeste, e lo corregge dicendogli che lui vuole sapere se c'è qualcuno che abbia vissuto in Italia. Il poeta avanza e scorge un'anima con il mento levato all'insù come un cieco in cerca di spiegazioni. Si rivolge a questa e gli chiede, qualora sia lei l'autrice della risposta, di dirgli chi sia e da dove provenga. L'anima racconta che fu senese e si chiamava Sapìa, fu ben più lieta delle disgrazie dei suoi parenti che delle proprie fortune ("Savia non fui, avvegna che Sapìa / fossi chiamata, e fui de li altrui danni / più lieta assai che di ventura mia"). Perché Dante non creda che lei menta, racconta di aver pregato Dio per la disfatta di suo nipote e dei suoi parenti presso Colle di Valdelsa il giorno stesso della battaglia (19 giugno 1269), di aver assistito con letizia alla loro fuga e alla loro uccisione finché, colma di gioia e appagata dalla grazia ottenuta, aveva alzato il volto al cielo gridando di non temere Iddio, dato che la gioia di quel momento le aveva tolto addirittura la paura della morte. In punto di morte si era pentita, ma sarebbe ancora nell'Antipurgatorio se non fossero giunte al cielo le preghiere di Pier Pettinaio. Tanto astio di Sapìa per il nipote fu dovuto all'opposizione di questi all'elezione di suo marito a podestà di Colle di Valdelsa. Il marito di Sapìa era guelfo e il nipote, ghibellino, fece ottenere la carica a suo fratello.
Finito il suo racconto, Sapìa chiede chi sia quell'uomo che chiede di loro, che al contrario di loro ha gli occhi spalancati ed è vivo. Dante risponde che gli occhi gli saranno un giorno chiusi in quel cerchio, ma per poco tempo, dato che ritiene di essersi macchiato poco del peccato di invidia, mentre ritiene che sarà punito ben più severamente nel cerchio inferiore per il peccato di superbia. Sapìa gli chiede allora chi l'abbia condotto lì se è certo di tornare nel cerchio dei superbi. Il poeta spiega che l'ha condotto lì Virgilio e conferma di essere ancora in vita, le chiede poi dove ella vuole che lui si rechi, una volta tornato tra i vivi, per richiedere preghiere in suo suffragio. L'anima constata quanto sia insolito ciò che sta accadendo e vede nel prodigio il segno di un grande amore di Dio per il poeta, poi lo esorta a spronare la gente a pregare per lei e, qualora dovesse passare per la Toscana, di far sapere ai suoi parenti che adesso è in un luogo di salvezza. Gli dice che li troverà tra la gente vana, cioè a Siena, dove sperano nel porto di Talamone come si spera di trovare acqua nel sottosuolo, ma finiranno solo per perdere tante vite. Il riferimento finale è all'ambizione senese di diventare una potenza marittima come Genova e Amalfi; Siena aveva acquistato dai monaci un borgo dove avevano iniziato a costruire il porto, e tutti ambivano a diventare ammiragli della futura flotta, ma la zona era paludosa e numerosi furono i morti di malaria.
Francesco Abate
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