mercoledì 30 gennaio 2019

COMMENTO AL CANTO XVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Posto avea fine al suo ragionamento
l'alto dottore, e attento guardava
ne la mia vista s'io parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: << Forse
lo troppo dimandar ch'io fo li grava >>.
Virgilio ha appena finito di spiegare a Dante la genesi del peccato e la struttura del Purgatorio, resta perciò a guardarlo per capire se è soddisfatto. L'allievo ha voglia di sapere altro, ma esita a domandare temendo di affaticarlo chiedendogli ulteriori chiarimenti circa un argomento così complesso. Come più volte ha affermato nei canti precedenti però, il poeta mantovano può vedere nei pensieri del suo protetto, capisce perciò che questi non chiede per timore e non perché sia appagato, quindi lo incita a domandargli tutto ciò che vuole. Dante dapprima dice al suo maestro quanto chiaramente comprenda sia le tesi che formula che le dimostrazioni che porta a loro sostegno, poi gli chiede di definire la natura dell'amore, principio di ogni virtù e ogni vizio ("Però ti prego, dolce padre caro, / che mi dimostri amore, a cui reduci / ogne buono operare e 'l suo contraro"). Si rivolge alla guida chiamandolo "padre caro", si pone quindi nei suoi confronti come il figlio che dev'essere educato, che attraverso il genitore deve conoscere l'universo che lo circonda. Non c'è perciò solo l'azione pedagogica del maestro in Virgilio, ma anche quella amorevole del padre. Conscio della complessità dell'argomento, il poeta mantovano lo invita ad ascoltare molto attentamente e a tenere vivo tutto il suo intelletto, dichiarando che gli dimostrerà l'errore di coloro i quali, pur essendo ciechi, si ergono a guide (riferimento agli epicurei). Spiega Virgilio che l'animo umano è creato con la naturale disposizione ad amare e ama ogni cosa sensibile che lo attrae con il piacere ("L'animo, ch'è creato ad amar presto, / a ogne cosa è mobile che piace, / tosto che dal piacere in atto è desto"); la facoltà conoscitiva dell'uomo trae l'immagine dalle cose reali e grazie alla fantasia la svolge, così da mostrarla all'anima, la quale verso essa si rivolge e, se si piega verso lei, quell'inclinazione è amore. Per rendere meglio il concetto, il maestro usa un paragone: così come il fuoco tende verso l'alto per cercare di ricongiungersi alla sfera celeste del fuoco, così l'anima umana tende verso l'oggetto desiderato e non smette finché a esso non si congiunge ("Poi, come 'l foco movesi in altura, / per la sua forma ch'è nata a salire / là dove più in sua matera dura, / così l'animo preso entra in disire, / ch'è moto spiritale, e mai non posa / fin che la cosa amata il fa gioire"). Diventa così evidente, conclude Virgilio, l'errore degli epicurei, i quali ritengono che ciascun amore sia buono: così come non tutti i sigilli lasciano una bella immagine solo perché la cera è buona, non tutti gli effetti dell'amore sono buoni solo perché l'amore in sé stesso è buono ("Or ti pote apparer quant'è nascosa / la veritate a la gente ch'avvera / ciascun amore in sé laudabil cosa; / però che forse appar la sua matera / sempre esser buona, ma non ciascun segno / è buono, ancor che buona sia la cera"). Dante risponde di aver capito la natura dell'amore, ma le parole del maestro hanno creato in lui un altro dubbio: se davvero l'amore sorge in noi a causa dell'influenza esterna dell'oggetto che imprime la propria immagine, quale può essere il merito o la colpevolezza dell'uomo nelle azioni che compie? Se tutto dipende da influenze esterne, ogni amore deriva solo dall'inclinazione dell'animo e non c'è alcuna azione volontaria umana, quindi un amore cattivo non può essergli imputato come colpa così come non ha meriti dei suoi amori buoni. Prima di rispondere a questa domanda, Virgilio fa una premessa: essendo il problema trattabile sia con argomenti filosofici, quindi con la ragione, che con argomenti teologici, con la fede, lui spiegherà solo la parte razionale mentre a quella teologica provvederà Beatrice più avanti. Il poeta mantovano spiega che ogni anima unita al corpo ha in sé una virtù specifica, la facoltà di intendere e di volere, che si manifesta solo attraverso le sue opere così come la vita della pianta si dimostra per le foglie verdi; l'uomo non sa da dove venga la conoscenza delle idee prime, che sono innate nell'essere umano così come nelle api è innato l'istinto di produrre il miele, e le opere generate da questa ragione innata non meritano né biasimo né lode; affinché ogni voglia si conformi a questa conoscenza delle idee prime, in noi è innata la ragione (la virtù che consiglia), la quale vigila su ogni nostra scelta e consenso, così a seconda che la ragione conduca l'uomo ad amori buoni o cattivi, nasce nello stesso il merito o la colpa; i filosofi antichi, riconoscendo la libertà nell'uomo, diedero all'umanità la dottrina morale; qualora negli uomini dovesse accendersi l'amore per ogni cosa, la ragione permetterebbe di scegliere quali respingere. Beatrice, conclude Virgilio, chiama questa nobile virtù "libero arbitrio", e invita Dante a ricordarsene qualora dovesse parlarne con lei.
La luna, sbucata quasi a mezzanotte, con la sua luce oscura le stelle e le fa sembrare più rade, si muove verso occidente, quindi verso il punto cardinale dove da Roma si deve guardare per vedere il sole tramontare tra la Sardegna e la Corsica ("e correa contra 'l ciel per quelle strade / che 'l sole infiamma allor che quel da Roma / tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade"). L'autore constata come il suo maestro, Virgilio (colui che ha reso più famosa Pietole, la città di nascita, di Mantova), lo abbia sgravato del peso dei dubbi che lo assillavano ("del mio carcar disposta avea la soma"). Dante, dopo aver dispiegato tutta la sua ragione per accogliere le parole del maestro, è preso da una forte sonnolenza. La scelta del poeta di descrivere la discussione dei problemi inerenti l'amore come una fatica, facendola seguire subito da un'intensa sonnolenza, può avere il valore di espiazione del peccato di accidia: concentrando le sue facoltà intellettive per comprendere la verità sull'amore, si è purificato dalla pigrizia morale che gli vale una delle P incise sulla fronte. La sonnolenza viene però tolta a Dante dall'arrivo di una schiera di anime. Queste corrono come i Tebani correvano lungo i fiumi Ismeno e Asopo per invocare la protezione di Bacco. Subito le anime sono presso i due pellegrini, le due più avanti gridano esempi di sollecitudine: la Vergine Maria che, compiutosi il rito dell'Incarnazione, corse a visitare santa Elisabetta; Giulio Cesare che, terminato l'assedio di Marsiglia, andò subito in Spagna a sconfiggere le truppe pompeiane presso Lerida. Le altre anime, sentiti gli esempi di sollecitudine, gridano incitamenti alla corsa affinché faccia rifiorire in loro la grazia divina ("<< Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda / per poco amor >>, gridavan li altri appresso, / << che studio di ben far grazia rinverda >>"). Virgilio si rivolge alle anime in corsa e chiede loro dove sia il punto da cui si possa salire alla cornice successiva non appena il sole sarà nuovamente sorto. Un'anima lo invita a seguirli, essi sono infatti così pieni della voglia di muoversi da non potersi fermare, si scusa perciò qualora dovesse ritenere il loro non fermarsi una scortesia. Dopo questa introduzione, l'anima si presenta: fu abate del monastero di san Zeno a Verona, ai tempi dell'imperatore Federico Barbarossa, il quale distrusse Milano ("di cui dolente ancor Milan ragiona"). L'abate rivela che presto un tale (il signore di Verona, Alberto della Scala) morirà (morì nel 1301, un anno dopo allo svolgimento del viaggio dantesco) e si pentirà di aver avuto il potere su quel monastero, perché vi ha posto il suo figlio illegittimo (Giuseppe), menomato nel corpo e nella mente, al posto dell'abate legittimo. 
L'anima dell'abate corre via e Dante non capisce se ancora parla o se ormai tace. Virgilio lo chiama e gli dice di prestare attenzione a due anime che si avvicinano "dando a l'accidia di morso", cioè elencando esempi del peccato di accidia. Le due anime citano due esempi: gli Ebrei che, stanchi della traversata del deserto dopo la fuga dall'Egitto, mormorarono contro Mosè e furono puniti non vedendo mai la terra promessa; i troiani al seguito di Enea che, stanchi del viaggio, restarono con Alceste in Sicilia e si negarono la gloria che avrebbero ottenuto partecipando alla nascita di Roma. 
Le anime tutte si allontanano, Dante vaga di pensiero in pensiero finché non si addormenta ("Poi quando fuor da noi tanto divise / quell'ombre, che veder più non potiersi, / novo pensiero dentro a me si mise; / del qual più altri nacquero e diversi; / e tanto d'uno in altro vaneggiai, / che li occhi per vaghezza ricopersi, / e 'l pensamento in sogno trasmutai").

Francesco Abate 

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