Corri bimbo
che il buio fa meno paura della luce!
Questa esortazione chiude due delle tre strofe della poesia Congo, contenuta nella raccolta Inferno.
In questa poesia parlo ad uno dei 40.000 bambini (dati Unicef 2014) costretti a lavorare nelle miniere di cobalto, sfruttati per più di dodici ore al giorno e picchiati dalle guardie di sicurezza. Di loro si parla poco, infatti servono per estrarre il cobalto necessario ai tanti dispositivi elettronici che usiamo, quindi anche l'occidente sceglie da anni di guardare da un'altra parte.
Mentre un bambino che nasce in Italia a cinque anni già può giocare con smartphone e tablet, un bambino congolese a quell'età lavora dodici ore al giorno in miniera per estrarre il cobalto necessario a far giocare il bambino italiano. Non c'è merito, è questione di fortuna: se nasci in Congo, la speranza di un'infanzia spensierata è un lusso che non ti puoi permettere.
Nella poesia mi rivolgo proprio ad uno di questi bambini, un "bimbo dal respiro affannoso" viste le polveri e l'aria malsana che è costretto a respirare, un "bimbo dalla faccia impolverata" e "spogliato dei sogni". Lui deve lavorare perché "alla mia vuota vita serve cibo, / e i finti amici voglio chiamare / o sentirò l'eco della mia vacuità".
La poesia si conclude con questa strofa:
"Corri bimbo spogliato dei sogni;
valli a cercare nella miniera,
sotto la polvere ne giacciono tanti
fuggiti dagli occhi di angeli morti.
Corri bimbo
che la tomba fa meno paura della vita!"
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Grazie e buona lettura.
Francesco Abate
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